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Delitti e "diritti"

L'infanticidio ci fa orrore (ma anche l'aborto uccide)

Un caso immaginario (ma frequente) e un caso di cronaca, entrambi dolorosi, ci spingono a chiederci perché ci si indigna (giustamente) per una madre che uccide sua figlia e si approva invece l'uccisione di un figlio nel grembo materno. Perché non si percepisce il nascituro come persona. Ma di questo passo chi potrà limitare il diritto di vita e di morte?

Editoriali 27_07_2022

Claudia, 37 anni, decide di uccidere la figlia perché di ostacolo alla relazione appena iniziata con un uomo. Lo Stato le paga il killer. Alessia, anche lei di 37 anni, decide di passare alcuni giorni con il suo nuovo compagno e lascia la figlia, di tenera età, sola in casa, trovandola poi morta al suo ritorno. Lo Stato la mette in carcere.

Perché lo Stato tratta due casi simili in modo tanto dissimile? Perché nel primo caso la figlia di Claudia è nel suo grembo, nel secondo caso la figlia di Alessia è fuori dal suo grembo. Nel primo caso l’aborto è un diritto pagato dallo Stato, nel secondo caso l’assassinio è un reato perseguito dal medesimo Stato. Il primo caso è inventato, ma comunque assai frequente, il secondo caso è attinto dalla cronaca recente: Alessia Pifferi ha lasciato la figlia Diana di un anno e mezzo a casa da sola per più di sei giorni senza cibo, a parte un biberon messo nel suo lettino, e senza assistenza decretandone così la morte per stenti. Questo perché doveva trascorrere alcuni giorni con la sua nuova fiamma.

Ha infatti dichiarato la Pifferi: «Io ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui (il compagno, ndr) e infatti era proprio quello che in quei giorni stavo cercando di capire; è per questo che ho ritenuto cruciale non interrompere quei giorni in cui ero con lui anche quando ho avuto paura che la bambina potesse stare molto male o morire». A leggere queste dichiarazioni ovviamente inorridiamo. Se invece leggessimo queste stesse dichiarazioni rilasciate da una donna che ha deciso di abortire, molti di noi non dissentirebbero. Il PM di Milano ha contestato l’aggravante dei futili motivi e tutti noi approviamo questa decisione. Invece quando si tratta di aborto nessun motivo appare futile. Alessia, nonostante la ricostruzione del PM sia differente, non ha poi cercato direttamente la morte della figlia, ma ha voluto correre un rischio che poi si è rivelato mortale. Le donne che abortiscono invece vogliono direttamente la morte dei propri figli. Bisognerebbe giudicare più duramente queste ultime rispetto alla prima. Ma così non avviene.

E dunque, quanta giusta riprovazione sta suscitando questa storia di degrado morale, quanto disgusto, quanto sconcerto. Eppure, vicende come quella di Alessia si ripetono centinaia e centinaia di volte in Italia ogni giorno: ogni qual volta una donna si reca in ospedale per abortire. L’atto è quasi il medesimo – volere la morte del figlio o esporlo ad altissimo rischio di morte – la percezione della gravità morale invece cambia. Atto tragico ma giusto nel caso dell’aborto, atto tragico e ingiusto nel caso dell’infanticidio o del figlicidio.
Lo sappiamo bene, ciò che fa la differenza nel percepito collettivo sta solo nel parto: fino a quel momento la vita del bambino non vale tanto quanto quella dei già nati. Varcata quella soglia, il piccolo può entrare a far parte del club degli intoccabili.

E che dire poi della fecondazione artificiale? Ha molte somiglianze con la vicenda di Alessia e Diana. Anche le coppie che vogliono un figlio in provetta espongono a rischio elevatissimo di morte (più del 90%) i loro figli. E il plurale non è usato a caso, dato che per avere un figlio in braccio occorre sacrificare sull’altare delle tecniche di fecondazione extracorporea molti figli, quando invece Alessia ha giocato alla roulette russa con una “sola” figlia.

Alla fine, il giudizio morale differente si spiega sul piano psicologico: l’aborto non viene classificato come assassinio perché non si percepisce il nascituro come persona. Ugualmente per la fecondazione artificiale: quell’essere umano in provetta non è persona. È un inganno della mente che non riesce a riconoscere un fatto per quello che è: il feto o l’embrione è persona tanto quanto la piccola Diana, lasciata morire di stenti.  Questo inganno è stato coltivato ad arte e simile arte è ahinoi sofisticatissima tanto che riesce nel suo intento ingannatore quasi sempre e partendo pure in svantaggio. Infatti, se non ci fosse simile orientamento ideologico che condiziona le coscienze in modo così efficace, nessuno avrebbe difficoltà a riconoscere l’ovvio: nella pancia della mamma in dolce attesa c’è un qualcuno, non un qualcosa. Il dato di realtà si imporrebbe. È necessario allora molto lavoro culturale per cancellare un’evidenza.
Parimenti se si iniziasse a dire – cosa che sta già avvenendo in qualche parte del mondo come nel Regno Unito – che è preferibile far morire anche i bambini disabili già nati, ecco che piano piano la coscienza collettiva inizierebbe prima a digerire il principio seppur indigesto  e poi a promuoverlo in prima persona.

Si potrebbe anche arrivare ad affermare che una madre ha il potere di vita e di morte sui figli finché questi non siano indipendenti. In un mondo simile Alessia Pifferi non starebbe di certo dietro le sbarre. In fin dei conti è tutta una questione di persuasione della coscienza collettiva. Alla gente si può far credere di tutto. Perché, come è noto, se non credi in Dio, credi a tutto.