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PRISMA

Le ragioni per sperare

In passato abbiamo fatto i conti con difficoltà maggiori dell'attuale crisi socio-economica. Ma oggi per effetto dell'ateismo di massa c'è meno fiducia nel futuro. L'Italia grazie alla sua eredità cristiana ha la responsabilità di invertire la rotta.

Prisma 25_12_2011
Vaticano
Il tempo di Natale è occasione propizia e nient’affatto casuale per verificare per contrasto quanto sia vero – diremo citando e parafrasando Chesterton – che chi non crede in Dio crede poi a tutto; e che il mondo pagano vive immerso nella paura. Così senza dubbio stanno oggi le cose per molti, e soprattutto è questo il messaggio quasi esclusivo della cultura di massa: basta ascoltare radio e Tv, basta vedere vetrine e luminarie per averne piena conferma.

Nella realtà profonda la situazione è un po’ diversa: non solo persistono ingenti esperienze di fede, ma anche fiumi carsici di spiritualità e di tradizione cristiana (nel senso originario della parola) corrono nel sottosuolo della cultura europea, pronti a riemergere nelle più diverse circostanze. Tuttavia nei limiti in cui nell’Occidente, e in particolare in Europa, l’ateismo pratico è una realtà di massa, i risultati si vedono. E più che mai si vedono nella situazione di crisi economica che stiamo vivendo. E’ vero che la situazione è difficile, ma resta ugualmente uno scherzo rispetto a quelle in cui si trovò la maggior parte delle generazioni che ci precedettero comprese le più vicine a noi, passate attraverso due guerre mondiali separate l’una dall’altra da vent’anni di ristagno economico segnati per di più dalla grande crisi del 1929-32. E’ davvero sorprendente, studiando le fonti dell’epoca, scoprire che spesso c’era allora meno timore del futuro e meno paura di quanti ve ne siano adesso.

La differenza tra allora e oggi
non sono le difficoltà obiettive del momento, in quegli anni enormemente maggiori. La differenza è che allora l’ateismo pratico non era ancora divenuto una cultura di massa. La crisi socio-economica, che oggi incombe sull’Europa, prima di essere socio-economica è culturale, e da essa non si esce se qualcosa non cambia in primo luogo appunto su tale piano; se insomma i più non ritrovano le ragioni della fiducia e della speranza. Essendo tra i maggiori Paesi europei quello nel quale comunque l’eredità cristiana mantiene maggior peso, l’Italia ha in tale situazione una specifica responsabilità, uno specifico compito. In tale prospettiva deve però innanzitutto liberarsi da due nefasti complessi d’inferiorità che le vengono occhiutamente e tenacemente instillati per un verso dalla cosiddetta “Europa” (intesa come sinonimo di “Nord Europa secolarizzato di tradizione protestante”), e per un altro da un suo parente stretto: quell’establishment post-illuminista che è la vera “razza padrona” del nostro Paese.

Secondo il primo
dei due complessi d’inferiorità di cui si diceva l’Italia sarebbe il grande malato dell’Unione Europea quando invece il grande malato sono i paesi industrializzati nel loro insieme a partire dagli Stati Uniti con il loro debito pari al 100 per centro del prodotto interno lordo; poi seguiti da vicino dall’Unione Europa in quanto tale, del cui debito complessivo quello italiano è soltanto una fetta, e nemmeno la più grande in valore assoluto.

Secondo l’altro dei due complessi d’inferiorità indotti il nostro Paese essendo di tradizione cattolica, avendo respinto la Riforma e trovandosi la Santa Sede per così dire in casa, non è in paese “normale”. Con le sue sole forze non può divenire davvero moderno. Per riuscirci malgrado i suoi handicap deve mettersi a rimorchio dell’”Europa” affidandosi a tal fine a chi la rappresenta qui da noi, ovvero la “razza padrona” di cui si diceva.

Per sfuggire a questa trappola
– diremo venendo alle urgenze del momento – i grandi soggetti della società civile italiana, che per visione del mondo e per seguito popolare sono in grado di farlo, dovrebbero incalzare il governo Monti sfidandolo senza mezzi termini sul terreno delle riforme di struttura. Sui limiti della sua legittimazione si è già detto tutto ciò che c’era da dire. Resta il fatto che per diverso tempo ce lo dovremo tenere. Sfidiamolo allora senza autocensurarci con proposte radicalmente innovative. Così dovrà venire allo scoperto consentendo a tutti di capire per che cosa lavora: se per il bene comune del Paese, e ne saremmo ben felici, o se per qualcos’altro.