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LE CAUSE DELLA CRISI BANCARIA/2

Le Banche Centrali spengono l'incendio che hanno creato

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Sul fallimento di SVB e l'acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS (nella prima parte di questa analisi), la causa non è da attribuire ad errori o avidità. Neppure alla mancanza di regole, che invece ci sono in abbondanza. La causa sta proprio in quella politica iper-inflazionista delle Banche Centrali. Le stesse che oggi, dopo aver appiccato l'incendio sono chiamate a spegnerlo.

Economia 06_04_2023
Federal Reserve

Segue dalla precedente

Al di là degli aspetti tecnici, occorre fin da subito precisare che non si può attribuire semplicisticamente la responsabilità di tali fallimenti all’avidità o a errori manageriali, che pure ci saranno stati, oppure al fatto che l’orizzonte di riferimento dei manager sia oramai il trimestre, perché ciò è purtroppo vero anche in altri comparti industriali. E neppure si può invocare un’inadeguata regolamentazione, visto che il settore bancario, negli Usa come a livello mondiale, è tra i più disciplinati e controllati in assoluto. Al cuore del problema ci sono quindi altre motivazioni, e sono trasversali a tutto il sistema finanziario, non solo le banche quindi, ma anche il settore assicurativo e i fondi pensione.

Per anticipare la risposta, inizio a dire che i pompieri chiamati oggi a spegnere gli incendi sono le Banche centrali, che di incendi se ne intendono visto che hanno contribuito in maniera determinante ad appiccarli, oramai da diversi lustri. A partire dalla Grande crisi finanziaria del 2008-2009, e poi in accelerazione post-CoViD dal marzo 2020, si è assistito a un’esponenziale iniezione di liquidità, creata ex-nihilo da parte della Federal Reserve americana e delle principali Banche centrali del mondo con massici programmi di Quantitative Easing (QE), il cosiddetto alleggerimento quantitativo, consistente in imponenti acquisti sui mercati secondari di titoli obbligazionari, prevalentemente governativi e Mortgage-backed securities, cartolarizzazioni di mutui immobiliari. Ciò ha determinato una forte discesa dei rendimenti dei titoli obbligazionari verso, e in molti casi anche sotto, lo zero. I risparmiatori hanno così perso occasioni di investimento poco rischioso, mentre i debitori, principalmente gli Stati e le grandi imprese private, sono stati di fatto sollevati dagli oneri di servizio del debito. Tale fenomeno, indicato in gergo col termine di “repressione finanziaria”, ha portato a un diffuso “azzardo morale”, nella ricerca di rendimenti adeguati. Il paradosso dei rendimenti negativi – una sorta di “usura” al contrario in cui è il creditore che paga per concedere un prestito al debitore – ha infatti spinto i risparmiatori e gli investitori, anche professionali, ad assumere atteggiamenti sempre più speculativi sui mercati finanziari. La liquidità a costo nullo, che costituisce l’inflazione nel senso proprio e tecnico del termine, ha quindi gonfiato bolle speculative sia sui mercati azionari sia sui mercati obbligazionari (e, in molti Paesi anche sul mercato immobiliare), generando un fenomeno particolare di “inflazione” degli asset, che la scuola austriaca di economia definisce col termine di asset class inflation. Sull’economia reale, tale processo di finanziarizzazione dell'economia ha indotto cattivi investimenti, apparentemente redditizi solo perché valutati in base a tassi di finanziamento pressoché nulli, portando così a un crescente sfasamento tra dinamiche reali e dinamiche finanziarie.

Dopo anni di rialzi borsistici e dei corsi obbligazionari, alimentati artificialmente dalla liquidità a costo nullo o negativo, dall’estate 2021 è esplosa l'inflazione anche sui prezzi di beni e servizi, quella che viene indicata come inflazione nel senso comune del termine, ma che in realtà è solo l’effetto, inevitabile, dell’inflazione in senso proprio che è l’espansione monetaria prodotta dalle Banche centrali e dal sistema delle banche commerciali a riserva frazionaria. Dai circa 900 miliardi di dollari all’inizio della GCF, il Bilancio della Fed era infatti passato ad oltre 4 mila miliardi pre-CoViD e quindi, in accelerazione esponenziale, a un massimo storico di quasi 9 mila miliardi a marzo 2022. Dopo molti mesi di “negazione”, in cui la Fed affermava che i rialzi dei prezzi di beni e servizi erano temporanei, a fronte di risalite dei prezzi anche a due cifre ha dovuto prenderne atto iniziando a rialzare affrettatamente i tassi di interesse: dal marzo 2022 la Fed ha aumentato i tassi otto volte, portandoli dallo zero al 4,50-4,75%, sui massimi dal 2007, sospendendo anche il QE.

La Fed nell’ultimo anno ha anche iniziato una timida riduzione del proprio Bilancio, il cosiddetto Quantitative Tightening (QT), drenando così liquidità dai mercati finanziari: la riduzione di circa 95 miliardi di dollari al mese nell’ultimo anno ha riportato il Bilancio a circa 8 mila e trecento miliardi a inizio marzo 2023. Pur rimanendo in un contesto di iper-liquidità, l’effetto combinato del rialzo dei tassi, della fine del QE e dell’inizio di un timido QT è stato sufficiente a provocare una discesa marcata dei corsi azionari (negli Usa dal 20% a oltre il 30%, a seconda degli indici); contestualmente, si è assistito a una forte contrazione dei corsi obbligazionari, che negli anni precedenti erano cresciuti in bolla, insieme alle azioni, a causa delle politiche monetarie ultra-espansive.

Se la liquidità aveva creato l’asset class inflation è evidente che una contrazione della liquidità avrebbe prodotto una speculare asset class deflation, uno sgonfiamento del valore degli asset finanziari, azioni e corsi obbligazionari, se non necessariamente in termini nominali per lo meno in termini reali, cioè di potere d’acquisto al netto dell’inflazione. Per di più, anche se i rendimenti reali (= rendimenti nominali – tasso di inflazione) rimangono negativi – e quindi i risparmiatori continuano a perdere in termini di potere d’acquisto – il rialzo degli oneri di servizio del debito è comunque già sufficiente a creare fibrillazione nei grandi debitori, dagli Stati sovrani alle grandi imprese più indebitate, che si trovano a rinnovare i debiti in scadenza a condizioni assai onerose. Ciò spiega perché la Fed, dopo il fallimento di SVB, sia tornata sui propri passi, riaprendo nuovamente i rubinetti della liquidità: in pochi giorni, col varo del BTFP, il Bilancio Fed è infatti risalito di oltre 300 miliardi di dollari, riportandosi oltre gli 8 mila e seicento miliardi, non lontano dal picco di un anno fa. Insomma, la Fed si è infilata in un bel cul-de-sac e non sa bene come uscirne.

2. continua