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IL CASO

L'antisemitismo nel fango: così il boicottaggio è "sporco"

Il boicottaggio non conosce limiti, se ci sono di mezzo Israele e i prodotti delle sue aziende. Nel mirino delle ong di sinistra e dei movimenti no global i cosmetici di una ditta israeliana, combattuta con nuova arma: il fango. É l’altra faccia, quella "pacifista", dell’antisemitismo, quello che in questi mesi ha insanguinato l'Europa.

Esteri 19_02_2015
Militanti di Code Pink in un negozio israeliano

La ragazza è in bikini ma non si prepara affatto a tuffarsi in piscina. Con lei altre giovani hanno il viso e il corpo imbrattati di fango. Sono le militanti dell’associazione pacifista Code Pink, erinni scatenate che usano fare incursione in massa nei negozi dove sono in vendita i cosmetici dell’azienda israeliana Ahava. Da tempo, la casa, che produce prodotti di bellezza con i Sali del Mar Morto, è nel mirino di organizzazioni e ong: un boicottaggio implacabile che costretto, come è successo a Covent garden, molti negozi Ahava a serrare le saracinesche dopo l’ennesima incursione delle scalmanate desnude.  Come le giornate di mobilitazione, le International day of action against Ahava, con centinaia di militanti che protesteranno, invitando al boicottaggio dei cosmetici che vengono dal kibbuz di Mitzpe Shalem in Cisgiordania, nei pressi del Mar Morto.  E l’altra faccia dell’antisemitismo, quello che in questi mesi ha seminati sangue e terrore in Europa, mascherato da umanitarismo e difesa delle minoranze sfruttate (i palestinesi). 

Le ragazze di Code Pink (associazione, creata nel 2002 negli Usa, ha scelto di chiamarsi Codice Rosa per derisione contro i nomi delle operazioni antiterrorismo: Codice Arancio, Codice Rosso... dati dall'amministrazione Bush.) si infangano il corpo per  rappresentare il senso del loro slogan: Ahava is a dirty business (Ahava è uno sporco affare).  Dicono che i prodotti di bellezza dell’Ahava  (in ebraico significa “amore”), provengono dalle risorse naturali rubate ai palestinesi; perciò eticamente inaccettabili perché violano i diritti umani e frutto di una rapina. Balle colossali perché Ahava non sorge su un “territorio occupato”: l’area del Mar Morto era deserta prima che gli ebrei ci tornassero e nessun palestinese ha mai lavorato quelle risorse naturali. 

Il fango antisemita aveva già colpito, qualche tempo fa, l’attrice Kristin Davis, l’interprete 44enne di Charlotte York, che nei telefilm di Sex and the City si converte all’ebraismo per amore. Kristin non è ebrea ma è molto popolare in Israele. Da due anni faceva pubblicità ad Ahava mentre a Natale invitava a comprare i regali dal catalogo dell’ong Oxfam International, una confederazione di 17 organizzazioni non governative che operano in più di cento Paesi contro povertà e ingiustizia.  Ora questa ong l’ha cacciata, accusandola di complicità coi massacratori dei palestinesi.  La stessa cosa che è successa all’attrice Scarlett Johansson, anche lei scacciata dalla ong per aver fatto pubblicità all’azienda SodaStream. La cosa che faceva imbestialire il fronte dei boicottatori, era il fatto che la Johansson era anche la madrina di Oxfam e che nel 2005 aveva scelto la Johansson quale “ambasciatrice globale”. Doppia vergogna per i compagni boicottatori che dovrebbero almeno conoscere  contro chi combattono. Il capitale di Ahava, ad esempio, è detenuto al 60% da alcuni kibbutz, il simbolo del collettivismo israeliano di sinistra. Forse, la sola società degli uguali mai realizzata in Terra. E nei laboratori di Ahava i dipendenti quasi tutti palestinesi. Che il loro lavoro e dunque sopravvivenza vengano boicottati da forsennati sedicenti solidali fa parte della loro squinternata ideologia comunista

Ma Kristin e Scarlett sono solo il paradosso mediatico di una campagna ben più solida e capillare che mira a colpire gli interessi economici israeliani nel mondo. In Inghilterra, danni più seri all’azienda provengono dal gruppo “Boycott, Divestment, Sanctions movement”, diretto dal palestinese Omar Barghouti, ma pure il governo mette tutto il suo peso nell’operazione boicotta Israele. Il ministero degli Esteri britannico, assieme al Defra, il ministero dell’Alimentazione e degli affari rurali, ha emesso una storica direttiva a tutte le catene di supermercati nel Regno Unito: nelle merci provenienti dalla Cisgiordania dovrà essere indicato se sono prodotte negli insediamenti israeliani.  I supermercati dovranno modificare le etichette che attualmente indicano “prodotto della West Bank”, rendendole più specifiche per informare i consumatori sulla provenienza dei cibi o beni acquistati, scrivendo quindi “prodotto palestinese” o “prodotto degli insediamenti israeliani”.  Per far fronte alle troppe richieste di boicottaggio, grandi aziende come Tesco, la più importante catena  di distribuzione, hanno dedicato un numero speciale ai prodotti israeliani: «Servizio clienti Tesco. Se state chiamando per informazioni sui prodotti da Israele, digitate 1». A questo sono arrivati.