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il libro

La "strana coppia" che insegna la nostalgia della vita

Mauro Bernardi e Antonio Savoldi, il camionista e lo sbirro. Sono "La strana coppia" di un libro breve e intenso che parla della loro amicizia, nata da un grave incidente, e riassume anche i loro incontri con i giovani, promuovendo la sicurezza sulle strade e prima ancora il valore di ogni esistenza, anche quando appare irrimediabilmente spezzata.

Attualità 21_01_2023

Lo sbirro e il camionista: una strana coppia nata in seguito a circostanze drammatiche, quando durante un grave incidente Mauro rimane schiacciato nel suo mezzo, finendo poi in sedia a rotelle, ed è Antonio il poliziotto che accorre a fare i primi rilievi. Tempo dopo si ritrovano per caso, Antonio lo riconosce ma la prima reazione di Mauro è tutt’altro che entusiasmante. Eppure, ne viene fuori La strana coppia che dà il titolo al libro di Antonio Savoldi (Marna, Gorle 2022) con il contributo di Mauro Bernardi. Poco più di 80 pagine – ma Savoldi ci rassicura che ne ha scritti altri due, La folle corsa 2.0  e Con questi occhi, di oltre 300 pagine ––che condensano la loro storia, ma anche quella di Andrea ed Elena, due fidanzatini separati per sempre da una “folle corsa” in scooter in cui lei perde la vita e lui resta disabile. La strana coppia si legge in un lampo ma tocca innumerevoli spunti di riflessione collegati a queste vicende. Con migliaia di giovani in tutta Italia, Antonio e Mauro parlano di sicurezza stradale ma anche di disabilità, dipendenze, matrimonio, aiuto reciproco, colpa, perdono, della morte fisica di un figlio e di quella interiore di un genitore... Questi incontri si possono riassumere nella citazione di apertura, in cui Antonio parafrasando la celebre "nostalgia del mare" di Saint-Exupery, scrive: «Se vuoi costruire un uomo non procurargli scorciatoie e alibi, solamente insegnagli la nostalgia della vita»

Antonio, partirei da una frase ricorrente nel libro: «le cose brutte capitano anche alle persone non cattive».
È un luogo comune – che Mauro riprende spesso – che si ripete ogni volta che accade qualcosa di brutto e ci si chiede: “Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” Nessuno fa niente di male per meritarsi una disabilità, eppure succede. Lo stesso per un padre che perde un figlio in un incidente: “Che male ho fatto?”, si chiede. Nulla, però è successo. Oppure, al contrario, si sente dire di qualcuno: “È così cattivo che se l’è meritato”.
Noi riprendiamo questo luogo comune per dire che le cose accadono a prescindere, non perché si è buoni o cattivi. Allora siccome già succedono di loro, facciamo in modo di non metterci del nostro, di fare la differenza laddove possiamo.

E una volta che “le cose brutte” accadono, come si riparte?
Mauro dice: “Io potevo fare due cose, scavarmi la fossa e piangermi addosso, andare in depressione, prendermela col mondo, suicidarmi… Oppure chiedere aiuto e ripartire, dopo aver sperimentato tutto questo dolore.”
Dopo esserti chiesto perché è successo (o “che male ho fatto?”) non lasciarti schiacciare, alza la mano e chiedi aiuto.  Lui lo ha fatto e la sua storia dimostra ne ha fatto una seconda opportunità di vita.

Mauro poteva essere tentato di farla finita o di mandare all’aria il matrimonio, e invece viene salvato da sua moglie.
Quando Mauro si vede disabile e pensa di non valere più, si toglie la fede dal dito pensando di lasciare libera sua moglie Claudia di “rifarsi una vita”, ma lei gli dice: «Io non ho sposato le tue gambe, ma l’uomo che sei! E l’uomo che sei non sarà mai una carrozzina a cambiarlo!». La nostra complessità non si riduce al fatto di essere belli, ricchi, sani, eccetera.

E poi è lui stesso che deve aiutarsi da sé e farsi aiutare.
Ci vuole coraggio sia ad alzare la mano per chiedere sia a darla per tirar su gli altri. Mauro lo mostra anche fisicamente negli incontri con i ragazzi: si butta giù dalla sedia a rotelle, prova a rialzarsi e poi ricade ancora. Allora alza la mano per chiedere aiuto e tendenzialmente vedi proprio i più scapestrati che si lanciano ad aiutarlo. E lui fa il passo ulteriore, perché grazie alla sua disabilità media riesce a far sciare chi ha disabilità più gravi. Qui si chiude il cerchio dell’umano consorzio.

Nella seconda vicenda, purtroppo, Elena vola letteralmente dallo scooter di Andrea, che si era messo alla guida dopo qualche tiro di cannabis e aveva intrapreso una corsa spericolata finita in tragedia. Ma anche a chi voleva infierire su di lui («Se fosse stata tua figlia a crepare?»), tu ricordi: «È se fosse stato tuo figlio a ucciderla?».
È il famoso gioco delle parti. È comprensibile che chi ha perso un figlio ce l’abbia con il responsabile. Ma dico sempre di non dimenticare che anche quest’ultimo poteva essere loro figlio. Quando succede la catastrofe ci perdiamo tutti. La mamma di Elena  si è messa nei panni dell’altra mamma che spingerà la carrozzina del figlio per tutta la vita. Come se le dicesse: “io la mia l’ho persa, ma da madre, se fossi dall’altra parte, so che anche tu avrai da soffrire per tutta la vita”. Che non va letto in tono vendicativo, al contrario, è la consapevolezza che potevano trovarsi a ruoli invertiti. Nonostante la sua personale disgrazia sia irreparabile, sa che anche la mamma di Andrea ha il suo Calvario, e ne ha com-passione, proprio nel senso etimologico di “sentire insieme”. Anche qui si manifesta la solidarietà.

Nel tuo libro e in quello che dite ai ragazzi non c’è, per così dire, un moralismo da “pubblicità progresso”...
Io già di mio non scrivo tanti verbali, preferisco cercare di far capire perché l’ho fermato…
Puoi dare anche venti milioni di multe ma se uno ha ucciso due persone il fatto resta. Puoi arrivare a fare in modo che non si ripeta. Voglio che arrivi il disarmo della sconfitta, perché io lo subisco ogni volta che muore un ragazzo sulla strada, ogni volta che rilevo un incidente. Io posso ritirare milioni di patenti, sequestrare quintali di droga, ma nel momento in cui muore mio figlio io ho perso tutto il mondo.
Le pubblicità progresso poi si fermano fino a un certo punto. Non ne vedi più contro la droga, chiediamoci perché. Sentiamo dire persino dalle famiglie: “In fondo ce la siamo fatta tutti”, ignorando che la cannabis di oggi è molto più sporca, sviluppando schizofrenie e paranoie. Attraverso la rete i ragazzi accedono a informazioni date per certe (“Anche lo scienziato tal dei tali dice che la canna fa bene, se sei giù di morale”), e invece restano privi di capacità critica scegliendo quelle più confacenti ai loro bisogni immediati. D’altra parte, anche noi adulti siamo confusi, non ci sono più capisaldi e si cade in quel relativismo che non è il dubbio funzionale all’analisi critica, ma per un ragazzino è nichilismo puro, che ha effetti tragicamente concreti.