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BOLOGNA

La morte di Devid, la distrazione di una città

Il padre: «Non siamo dei vagabondi».
- A questa città manca un vero padre di famiglia
, di G. Gibertini

Attualità 11_01_2011
Bologna
«Ciò che è accaduto rivela l’insufficienza delle strutture di protezione sociale e la distrazione della società e di tutti noi, che non possiamo ora farci personale scudo di asserite responsabilità collettive». Lo dice mons. Antonio Allori, vicario episcopale per la Carità della diocesi di Bologna, a fronte della tragica morte del piccolo Devid, morto di freddo il 4 gennaio, a soli 20 giorni dalla nascita, nella ricca e progressista Bologna.

Si tratta di una vicenda  tutt’altro che chiara, con molti aspetti ancora da chiarire. Di certo c’è però che la morte del piccolo Devid è maturata in uno scenario di degrado sociale e umano che dovrebbe interrogarci tutti. Aspetti ancora da chiarire, dicevamo, primo fra tutti la questione della strada: «Non è vero che viviamo in strada, che siamo dei vagabondi. Abbiamo una casa in affitto, 460 euro per un buco in via delle Tovaglie, abbiamo difficoltà economiche e facciamo i salti mortali ma non siamo dei pazzi che tengono due neonati al gelo senza curarsene». Adesso risponde infatti così Sergio Berghi, il 43enne padre del piccolo scomparso, alla ridda delle notizie più o meno incomplete che si susseguono, delle opinioni e dei “si dice”, in una intervista che compare sul sito del Corriere della Sera. «Sono pronto a togliermi il pane da bocca per i figli — prosegue Berghi — ma non c’è lavoro. Claudia [la madre del piccolo –ndr.] faceva assistenza agli anziani ma quando ha avuto la bimba ha smesso. A novembre ho fatto un lavoretto ma mi sono rimasti cento euro. I problemi ci sono ma non siamo barboni, abbiamo una casa dove stare».

Bene fa, dunque, mons. Allori a intervenire con chiarezza: «Di fronte al tragico fatto della morte per freddo nel cuore di Bologna di un bimbo di soli 20 giorni - ha detto il vicario episcopale -, la ragione si smarrisce nello sconcerto e nel turbamento, il sentimento è di dolore e di  compartecipazione allo strazio dei genitori, mentre la fede invoca sui familiari il conforto misericordioso del Signore e la comunità ecclesiale – che già in modo particolare in questi tempi difficili ha cercato con varie iniziative di alleviare le difficoltà di chi più soffre - è chiamata a un di più di carità operosa». Ma mons. Allori aggiunge però significativamente tanto quanto chiaramente che «non possiamo non interrogarci su ciò che è avvenuto. E ciò che è accaduto rivela l’insufficienza delle strutture di protezione sociale e la distrazione della società e di tutti noi, che non possiamo ora farci personale scudo di asserite responsabilità collettive». Insomma, qualcosa nel meccanismo di quella che dovrebbe essere la carità verso gli ultimi e i più piccoli non ha funzionato, con esito gravissimo.

«L’appello del Cardinale Arcivescovo», ha proseguito il vicario «a una più ampia e generosa solidarietà sociale tante volte ripetuto – da ultimo anche nell’omelia al Te Deum di fine d’anno – assume in questo momento la concretezza severa del monito che la comunità ecclesiale, e auspicabilmente anche quella civile, non deve ignorare». La solidarietà, insomma, oltre che predicarla e invocarla, dice la Chiesa bolognese, occorre farla. Cominciando dagli ultimi (nati) e dai più piccoli, appunto.