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APPUNTI PER I CARDINALI / 6

La Chiesa ha bisogno di combattere l’apartheid liturgico e gli abusi

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La qualità della liturgia, uno strumento formidabile di evangelizzazione, è l’indicatore dello “stato di salute” della Chiesa. Il nuovo pontefice dovrà riprendere il lavoro di riconciliazione tra rito antico e post-conciliare.
-Boni: «Becciu doveva e poteva partecipare» di Nico Spuntoni

Ecclesia 01_05_2025 English Español
Foto LaPresse

La missione della Chiesa scaturisce dal rapporto di lei con lo Sposo e ha il fine di condurre ogni uomo dentro questo rapporto sponsale. L’anticipo di queste nozze, secondo l’insegnamento del libro dell’Apocalisse, è la liturgia della Chiesa, che è nel contempo tirocinio incessante per apprendere la voce della sposa, che si rivolge allo Sposo, ed entrare rispettosamente e amorevolmente in questo rapporto. La qualità della liturgia della Chiesa, la modalità di comprenderla e celebrarla sono forse il più importante indizio per valutare lo “stato di salute” della sua relazione con Cristo e della comprensione della finalità della sua esistenza: il soccorso ai poveri cesserà, la missione verrà meno, ma la liturgia è il senso e l’atto dell’eternità.

Questa voce della Sposa è stata svilita da continue iniziative personali di sacerdoti, gruppi e persino vescovi che ritengono la liturgia un laboratorio in cui sfogare la propria creatività, costringendo così i fedeli a dover sopportare gusti arbitrari di chi, anziché servire la liturgia della Chiesa, se ne serve per altri scopi, più o meno nobili. Uno sguardo realistico alla situazione liturgica non può che portare alla triste constatazione che, nella Chiesa, ormai raramente si ode la voce della Sposa, sostituita o soffocata da voci che “sanno di mondo”; la situazione può essere così riassunta: chiesa che vai, Messa che trovi.

A questa diffusione di arbitrarietà non di rado si accompagna l’ancora più grave problematica degli abusi liturgici, oltre ogni limite di sopportazione, che hanno svilito il Mistero che è al cuore della vita della Chiesa. Le richieste del Concilio Vaticano II, nella sua costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, sono state in larga parte disattese, quando non perfino contraddette. Di questa costituzione si ricorda solamente il principio della partecipazione attiva dei fedeli, peraltro equivocamente inteso, mentre sono state obliate quelle indicazioni concrete che avrebbero evitato la deriva presente ed avrebbero permesso alla Chiesa latina di avere una liturgia degna di questo nome. Quello che è avvenuto in questo pontificato, con una veemenza simile a quanto accaduto negli anni Settanta e Ottanta, è stata la sistematica persecuzione, talvolta aperta e talvolta subdola, di ogni forma legata alla tradizione liturgica romana; gestualità del sacerdote, paramenti e vasi sacri ben curati, canto gregoriano e musica liturgica, lingua latina: è sempre più raro prendere parte a liturgie che abbiano conservato questi elementi costitutivi.

A partire dal Motu Proprio Traditionis Custodes (16 luglio 2021), abbiamo assistito ad una incomprensibile e ingiustificabile persecuzione di fedeli e sacerdoti legati al rito antico, pienamente in comunione con la Chiesa. Questa misura evidenzia una pericolosa cecità ideologica, che ha costituito una provocazione per molti fedeli, che si sono sentiti spinti, a torto, a fare scelte di rottura della comunione ecclesiale. L’equilibrio e la distensione degli animi che si stavano gradualmente raggiungendo con il Motu Proprio Summorum Pontificum sono stati cancellati in un attimo da una misura non necessaria, controproducente e profondamente ingiusta. Ritenere che i fedeli che frequentino il Rito antico siano ipso facto elementi di rottura della comunione ecclesiale e, per questa ragione, procedere ad una sistematica e capillare eradicazione delle Messe in rito antico, anche laddove i vescovi non hanno espresso alcuna problematica relativa alla comunione ecclesiale, è espressione di una visione unilaterale, ideologica e dunque errata; se si universalizzasse il principio, si dovrebbe probabilmente cancellare anche la gran parte delle celebrazioni eucaristiche nel rito riformato.

Non si tratta solo di aver privato numerosi sacerdoti, religiosi e fedeli laici di una forma liturgica a cui si sono particolarmente legati per le sue precipue caratteristiche, ma anche di aver bruscamente interrotto quel necessario processo di riconciliazione interna della Chiesa, evocato da Benedetto XVI, e che passa proprio dal fatto che la Chiesa di oggi riconosca come un dono il “rito di ieri”. Traditionis Custodes ha provocato una dolorosa frattura interna al mondo cattolico, ed ha anche rinnovato una impensabile rottura tra il passato e il presente della Chiesa. Questa mancata riconciliazione ad intra mina le basi di quel sano e costruttivo dialogo ecumenico che la Chiesa cattolica sta faticosamente costruendo ad extra, soprattutto con i cristiani orientali e ortodossi, che di certo non vedono come un buon segnale il trattamento che le autorità cattoliche stanno riservando ai fedeli legati alla forma più antica del Rito romano.

Il nuovo pontificato avrà il compito improcrastinabile di porre nuovamente mano a questa riunificazione interna, che dovrà passare non solo per una più generosa autorizzazione della vita liturgica e sacramentale secondo i libri liturgici del rito antico, ma anche per una maggiore strutturazione che permetta a fedeli e sacerdoti di non essere continuamente in balìa di fluttuazioni dovute a correnti ideologiche. La soluzione di un “ordinariato tradizionale”, che coordini i vari gruppi legati alla forma antica del Rito romano, con un vescovo che possa essere l’interlocutore diretto degli altri confratelli nell’episcopato per tutte le questioni di gestione dei gruppi, si presenta come la più logica, pacificante, rispettosa della realtà.

Ancora più urgente appare un sostanziale intervento per combattere l’eccessiva “mondanizzazione” nella celebrazione del rito riformato da Paolo VI. La ripresa dell’applicazione sistematica dell’Istruzione Redemptionis Sacramentum potrebbe configurarsi come il primo passo per ridurre non solo gravi abusi liturgici, ma anche l’ormai disseminato utilizzo “disinvolto” del Messale e delle sue rubriche. Particolare attenzione si dovrà dare al canto e alla musica liturgica; la situazione attuale permette di affermare, senza esagerazioni, che di fatto, la Chiesa, nel suo rito latino, non ha più un canto proprio, disattendendo le chiare indicazioni di Sacrosanctum Concilium. Ovunque si assiste a canzoni dalla chiara melodia secolare, dai testi non scritturistici o comunque non radicati nella tradizione liturgica della Chiesa, e dall’esecuzione spesso improvvisata ed approssimativa. I libri liturgici approvati (Graduale Triplex, Graduale romanum), frutto di un grande lavoro di recupero del Proprio gregoriano, dovranno nuovamente divenire il riferimento fondamentale del canto liturgico.

Non si deve commettere l’errore di dimenticare quanto la cura del culto pubblico della Chiesa sia uno straordinario strumento di evangelizzazione, permettendo al fedele di sperimentare “mediante i sensi” la presenza della pacificante e santificante Maestà divina, che sola può permettere di vivere in questa valle di esilio con gli occhi e il cuore costantemente elevati al Signore, confortati dalla sua presenza salvifica e salvati dall’inesorabile processo di secolarizzazione in corso. La “clericalizzazione del culto” non si risolve con un illimitato ampliamento dei ministeri laicali e con una scorretta comprensione della partecipazione attiva dei fedeli, ma sottraendo i riti alle manipolazioni, alle sperimentazioni, agli adattamenti arbitrari di vescovi e sacerdoti, non meno che di singoli gruppi.

6. Continua



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