Israele-Palestina, "due Stati" è una soluzione irrealistica
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La corsa al riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei Paesi occidentali non tiene conto della complessità della situazione e sta rischiando di ottenere l'effetto opposto a quello desiderato: l'accelerazione dei piani militari di Israele. E non considera il fattore religioso del conflitto, che è determinante.

Dopo l’annuncio il 25 luglio del presidente francese Emmanuel Macron, anche Regno Unito e Canada si sono messi sulla strada del riconoscimento dello Stato palestinese, pur con modalità diverse. Mentre la Francia si presenterà all’Assemblea generale dell’ONU a settembre con la decisione già presa, il premier britannico Keir Starmer si risolverà a fare il passo diplomatico se Israele non fermerà i massacri a Gaza, mentre il premier canadese Mark Carney pone la condizione di riforme democratiche ed elezioni entro il prossimo anno con l’esclusione di Hamas. Ora anche la Germania ci pensa e pressioni vengono fatte anche sul governo italiano.
L’obiettivo dichiarato è quello di spingere Israele a fermarsi e di dare nuovo impulso al processo verso “Due popoli, due Stati”, che nei giorni scorsi anche il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha riproposto come unica soluzione.
Per quanto questa venga presentata come una strada obbligata, è vero piuttosto che, nella situazione attuale, si tratta di un vicolo cieco. Decisioni buone per fare un po’ di propaganda, per dare l’idea di stare facendo qualcosa per la pace, per accontentare le crescenti minoranze islamiche nei Paesi occidentali, ma nella realtà si tratta di iniziative fuori tempo, inefficaci se non controproducenti.
I motivi sono molti, a cominciare dal fatto che storicamente c’è proprio la soluzione dei due Stati all’origine del conflitto: fu la soluzione approvata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1947 (Risoluzione 181), ma rifiutata dagli arabi, che portò subito alla guerra visto che nel frattempo Israele procedette in modo unilaterale. Da allora, in una situazione di conflitto permanente, si sono combattute tre guerre tra Israele e i Paesi arabi (1948, 1967, 1973) con successive modifiche dei confini (a favore di Israele), e soprattutto dal 1987 ci sono state continue rivolte nei territori palestinesi occupati da Israele. Sebbene oggi alcuni Paesi arabi abbiano cambiato posizione e riconoscano Israele, non sono cambiate le ragioni che sono alla radice di quel conflitto e, anzi, la situazione sul terreno si è complicata dopo quasi 80 anni di conflitto, senza contare l’odio reciproco che in questo ciclo di violenze è aumentato in modo esponenziale.
Ben difficile pensare che la causa di una guerra possa anche essere la sua soluzione.
Una finestra di opportunità si era in realtà aperta nel 1993 con gli accordi di Oslo firmati dal premier israeliano Yitzhak Rabin e dal presidente palestinese Yasser Arafat. E fu infatti in quel promettente periodo che la Santa Sede avviò dei colloqui sia con Israele sia con l’Autorità palestinese, arrivando ad allacciare relazioni diplomatiche con Israele già nel 1994 e contemporaneamente accordi di collaborazione con l’Autorità palestinese sfociati poi in un pieno riconoscimento diplomatico nel 2015.
Ma l’uccisione di Rabin nel 1995 (ad opera di un colono ebreo estremista) e il fallimento dei negoziati a Camp David nel 2000 tra il premier israeliano Ehud Barak e Arafat, hanno chiuso quella finestra, e tutto è cambiato sia in Israele sia nel campo palestinese, come vedremo più avanti.
Ci sono poi una serie di motivi molto pratici: oggi sono già 147 su 193 i Paesi che riconoscono lo Stato della Palestina (e molti altri hanno comunque rapporti con l’Autorità palestinese); se questo numero non ha inciso per nulla sul conflitto, in base a quale calcolo dovrebbe cambiare qualcosa se il numero salisse a 150 o 155? Solo perché si tratta di Paesi europei o occidentali? Un po’ debole come argomento. In realtà gli unici riconoscimenti diplomatici che farebbero la differenza sono proprio quelli che mancano e continueranno a mancare: quello reciproco tra Israele e lo Stato palestinese e quello di Israele da parte dei Paesi della regione che lo rifiutano, Iran in testa. Non è una questione banale: che senso avrebbe avere due Stati confinanti – ammesso che fosse possibile imporlo – che non si riconoscono e continuerebbero la guerra per annientarsi?
Altra questione riguarda l’eventuale territorio sotto l'autorità palestinese: è davvero realistico, come alcuni propongono, riprendere in mano il piano del 1947, con tutti i cambiamenti che nel frattempo si sono realizzati sul terreno? Qualcuno può davvero pensare di spostare oltre mezzo milione di ebrei che oggi vivono tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania (e peraltro sono i più estremisti) e magari anche i 2 milioni di arabi che invece vivono in Israele?
Chi rappresenterebbe poi lo Stato palestinese? Si dice l’Autorità palestinese (Anp), ma a parte il fatto che è abbondantemente discreditata fra i palestinesi stessi, questa raffica di riconoscimenti diplomatici è una reazione alla guerra di Gaza, dove Hamas resta l’indiscussa forza guida. Tanto è vero che è Hamas ad essere coinvolta nei negoziati ed è assai probabile che se si votasse in Cisgiordania otterrebbe la maggioranza anche lì. Certamente questo dimostra il fallimento di un anno e mezzo di guerra israeliana a Gaza se – come dichiarato – l’obiettivo era eliminare Hamas. Invece i terroristi palestinesi, pur indeboliti militarmente, sono ancora lì a dettare le condizioni oltre che a tenere gli ostaggi. E quindi con Hamas bisogna fare i conti.
L’unica novità da questo punto di vista viene dalla Lega Araba, che ha firmato il 30 luglio la “Dichiarazione di New York” in cui per la prima volta condanna l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 contro Israele, e chiede il disarmo di Hamas e la sua esclusione da qualsiasi futuro governo palestinese. Dichiarazione politica molto importante, ma la cui applicazione sarà tutta da verificare.
L’impressione è che in realtà la spinta al riconoscimento dello Stato palestinese, anziché frenare Israele la induca ad accelerare i suoi piani, che oltre Gaza includono anche la conquista della Cisgiordania, come ormai viene apertamente dichiarato da parlamentari e ministri.
Anche perché c’è un fattore decisivo che i nostri governanti dimenticano o sottovalutano, ovvero quello religioso. Rispetto agli anni ’90 del XX secolo quello che è cambiato veramente è l’ascesa sia in Israele sia tra i palestinesi delle forze religiose fondamentaliste, quelle per cui «Questa terra ci è stata data da Dio». E questo esclude qualsiasi condivisione, men che meno una partizione. Ai tempi degli accordi di Oslo e dei negoziati di Camp David a confrontarsi c’erano ancora dei politici, nazionalisti sì ma anche pragmatici e realisti. Da allora però le cose sono molto cambiate: la crescita di Hamas ha trasformato la lotta palestinese da nazionalista in religiosa, mentre con Ariel Sharon prima e Netanyahu dopo la destra ultrareligiosa ebraica ha guadagnato posizioni fino a diventare oggi decisiva. E questi estremismi religiosi si nutrono e crescono grazie alla guerra e all’odio che genera.
Ma soprattutto sono forze che non conoscono il concetto di compromesso o di accordo: la loro presenza nella terra donata da Dio – che per entrambi va “dal fiume al mare”, cioè dal Giordano al Mediterraneo - non può prevedere la presenza dell’altro, Dio non può donare la stessa terra a due popoli diversi.
È con questa realtà che oggi bisogna fare i conti, la comunità internazionale deve cercare anzitutto di neutralizzare e marginalizzare queste forze estremiste religiose, cominciando dal togliere loro qualsiasi riconoscimento politico e bloccandone le fonti di sostegno. E poi, invece di continuare a perpetuare vecchie formule, si deve cominciare a pensare a una soluzione che contempli la convivenza. I vescovi di Terra Santa – incluso il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, cardinale Pierbattista Pizzaballa - lo avevano già detto con una dichiarazione il 20 maggio 2019: «Tutti i discorsi sulla soluzione dei due Stati sono vuota retorica nella situazione attuale. Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Condizione fondamentale per una pace giusta e duratura è che tutti in questa Terra Santa abbiano piena eguaglianza. Questa è la nostra visione per Gerusalemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto tra il fiume Giordano e il Mare Mediterraneo».
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