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REPRESSIONE RELIGIOSA

Il Natale negato ai cristiani perseguitati

Molti sono i cristiani che non hanno potuto celebrare il Natale. È difficile farlo o impossibile in paesi come la Mauritania, le isole Comore, l’Afghanistan, il Brunei, la Corea del Nord. In altri Paesi, come la Nigeria, il problema è la sicurezza. E nel Sahel, gli jihadisti. In Pakistan una donna cristiana accusata di blasfemia passa il Natale in una piccola cella, altri tre sono tornati liberi. 

Libertà religiosa 29_12_2022
Natale a Islamabad

Anche quest’anno sono molti i cristiani che non hanno potuto celebrare il Natale. È difficile farlo o impossibile, se non di nascosto perché proibito, in alcuni paesi dove i fedeli sono una piccola minoranza: la Mauritania, ad esempio, le isole Comore, l’Afghanistan, il Brunei, la Corea del Nord. Altre comunità invece si sono potute raccogliere in preghiera, ma come ogni anno in stato di allerta, adottando misure di sicurezza, per timore di attentati, un rischio che sempre aumenta a Natale e a Pasqua soprattutto in paesi come la Nigeria, il Pakistan, l’Indonesia.

Particolarmente dolorosa inoltre è la situazione dei tanti cristiani costretti a trascorrere il Natale da soli, in prigionia, tra estranei per origine e spesso anche per fede. È il caso di diversi religiosi rapiti in Africa. Nella sola Nigeria ne sono appena stati sequestrati tre in sei giorni. Il primo è stato padre Christopher Ogide, parroco della parrocchia Maria Assunta della diocesi di Umuahia, nello stato meridionale di Abia. Il 17 dicembre è stato rapito al cancello d’ingresso della casa parrocchiale, mentre stava andando a fare rifornimento di benzina in un vicino distributore. Il 20 dicembre è stata la volta di don Sylvester Okechukwu, della diocesi di Kafanchan, nello stato di  nord occidentale di Kaduna, che è stato rapito nella tarda serata, prelevato nella canonica parrocchiale della Lere Local Government Area dove si trovava in quel momento. Infine nel pomeriggio del 22 dicembre è stato sequestrato nello stato nord orientale di Benue padre Mark Ojotu, cappellano presso l’Ospedale St. Mary di Okpoga. Il rapimento è avvenuto verso sera mentre padre Ojotu percorreva la Okpoga-Ojapo Road. In tutti e tre i casi si ritiene che si tratti di sequestri a scopo di estorsione, un crimine  che quasi in tutta la Nigeria è diventato una piaga sociale e che sia il governo centrale sia i governi degli stati che compongono la federazione non si preoccupano abbastanza di contrastastare.   

Altri due religiosi hanno trascorso in prigionia il Natale in Africa. Uno è il sacerdote Fidei Donum Joel Tougbaré, rapito nel suo paese, il Burkina Faso, il 17 marzo del 2018. Si era messo in viaggio per tornare a casa, nella sua parrocchia, dopo aver celebrato la messa domenicale in un villaggio, ma non è mai arrivato a destinazione. In mano ai suoi rapitori è anche il missionario tedesco dei Padri Bianchi, Hans-Joachim Lohere, sequestrato in Mali lo scorso 20 novembre. Doveva celebrare la messa domenicale in una chiesa nei pressi della capitale Bamako, ma lo hanno atteso invano. Solo la sera i suoi confratelli si sono accorti della sua assenza e hanno allertato la polizia. A differenza di quanto succede in Nigeria e in altri stati del continente, in cui i frequenti rapimenti di religiosi sono opera di delinquenti comuni senza che necessariamente siano motivati da odio religioso, è possibile, e anzi si ritiene quasi certo, che a rapire entrambi i religiosi siano stati dei jihadisti perché il Burkina Faso e il Mali sono tra i paesi africani che più vivono sotto la minaccia di gruppi armati affiliati ad al Qaeda e all’Isis. Dei due religiosi, del vuoto nel cuore che la loro assenza produce nelle rispettive comunità ha parlato alla vigilia di Natale padre Pier Luigi Maccalli, il missionario liberato nel 2020 dopo essere stato a sua volta per oltre due anni prigioniero di jihadisti. Con loro Padre Maccalli ha ricordato altre otto persone tuttora prigioniere di gruppi jihadisti attivi nel Sahel.

Lontana dai famigliari e senza il conforto dei riti religiosi ha trascorso il Natale, per il secondo anno, anche Shagufta Kiran, la donna cristiana pakistana di 35 anni, madre di due figli, accusata di blasfemia nel luglio del 2021 per aver ricevuto e inoltrato su una chat WhatsApp un messaggio dal contenuto giudicato blasfemo, “deliberatamente offensivo nei confronti dei sentimenti religiosi e del profeta Maometto e tale da incitare all’odio religioso”. Rischia la pena di morte e nel frattempo, da 18 mesi, è rinchiusa in una cella angusta. “È straziante vederla rinchiusa in una piccola stanza – ha dichiarato il figlio Harrison dopo aver avuto il permesso di farle visita – non ho neanche potuto tenerle la mano perché c’è una barriera di separazione tra detenuti e visitatori”. Insieme al padre e alla sorella maggiore Nihaal, dopo l’arresto della madre, il ragazzo si è dovuto nascondere per sottrarsi alla violenza degli estremisti islamici. “non riesco più a sopportare lo stare lontana da voi. Desidero tanto e chiedo a Dio di poter nuovamente godermi il Natale insieme a voi, uniti come una famiglia” aveva detto Shagufta poco prima di Natale, ma la sua preghiera non è stata ascoltata.

Hanno invece potuto trascorrere il Natale fuori dal carcere tre altri cristiani accusati di blasfemia e che in due separate sentenze hanno ottenuto la libertà su cauzione. Si tratta di Salamat Mansha Masih, scarcerato dopo 18 mesi trascorsi in prigione con l’accusa di aver predicato la religione cristiana e aver offeso il Profeta, accusa formulata da quattro studenti musulmani. Gli altri due cristiani sono Patras Masih e Raja Waris, un pastore protestante, rilasciati su cauzione prima di Natale il primo dopo quattro anni e mezzo di carcere, il secondo dopo 20 mesi. Patras e il pastore Waris sono accusati di aver diffuso materiale blasfemo sulle reti social.