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NUOVA TEOLOGIA

Il "discernimento" è la negazione della morale

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"Discernimento" è oggi la parola chiave della nuova teologia morale. Viene intesa in un senso agnostico e protestante: la norma morale non è più assoluta, è sempre storica e mai definitiva, ha sempre del soggettivo e non è solo oggettiva. Ma alla fine il discernimento rende impossibile l'insegnamento morale.

Editoriali 10_05_2023

Tra le parole magiche della Chiesa di oggi c’è il “discernimento”. La Chiesa deve educare al discernimento, camminare insieme a tutti educandosi vicendevolmente al discernimento, la sinodalità serve al discernimento e viceversa, non bisogna sostituirsi alla coscienza ma educarla a discernere, i divorziati risposati si impegnano in un percorso di discernimento, la pastorale richiede discernimento comunitario, le leggi ingiuste vanno valutate dopo un discernimento fondato sul dialogo e così via.

Il discernimento è la parola chiave della nuova teologia morale ed è pane quotidiano per i teologi delle facoltà teologiche di Milano e Padova e, dopo il cambiamento, anche per i docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia. Ma è ormai pane quotidiano anche nella semplice prassi pastorale della Chiesa di base. Il problema è che dietro il nuovo senso della parola “discernimento” c’è un cambiamento totale della dottrina morale cattolica.

Di questo nuovo senso di discernimento non c’è traccia nella Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, né nell’insieme della dottrina morale cattolica tradizionale. Una accezione nuova che veicola una morale radicalmente diversa e nuova. Il percorso del cambiamento è stato lungo. Per l’Italia la svolta decisiva risale addirittura al 1971, quando Enrico Chiavacci disse che l’uomo ha la natura di non avere natura, con il che negava la natura come fonte finalistica dei criteri etici, cosa che anche Maurizio Chiodi, per fare un solo nome tra i tanti, fa oggi nel suo “Manuale di teologia fondamentale”.

Qual è allora questo senso nuovo della parola discernimento? Essa si fonda su un presupposto agnostico: la nostra conoscenza è sempre parziale e imperfetta perché storica e situazionale. Essa è e rimane sempre interpretazione. La morale tradizionale viene quindi sistematicamente accusata di intellettualismo, perché riteneva che l’uomo, così come conosce la natura delle cose e di se stesso, anche conosca i principi della vita morale a cominciare dalla legge aurea: fare il bene ed evitare il male.
I nuovi manuali di teologia morale demoliscono in poche pagine parti intere della Somma teologica di Tommaso, accusandolo appunto di intellettualismo. Questa accusa vorrebbe dire che la vecchia teologia morale assegnerebbe all’intelletto un ruolo conoscitivo del bene a scapito delle altre potenze umane come la volontà o le passioni, distinguerebbe estrinsecamente tra mezzi e fini e tra norma e situazione. La morale così avrebbe un fondamento astratto, teorico, dottrinale, oggettivante  e non emergerebbe da tutta la vita della persona, bensì solo dalla sua intelligenza.

Ovviamente questa è una caricatura di San Tommaso, il quale assegnava ad ogni potenza umana quanto le spettava e la conoscenza spetta certamente all’intelletto che, pur non essendo separato dalle altre potenze umane, comunque è capace di svolgere il proprio ruolo. Diventava così possibile conoscere la legge morale e i precetti morali senza escludere l’intreccio concreto nella persona di tutte le sue facoltà. Il discernimento era allora l’incontro tra la norma così oggettivamente conosciuta e le situazioni concrete e particolari in cui la coscienza deve muoversi. Non si tratta di opposizione tra astratto e concreto perché la norma vive qui, illuminando la situazione di vita e indirizzando – non muovendo – la volontà.

La nuova teologia morale accoglie il principio agnostico e protestante del pensiero moderno e pensa che l’uomo conosca non solo con l’intelletto ma anche con la volontà, i desideri, le passioni, la cultura, le intenzioni, l’emozionalità, l’esperienza, sicché la norma morale è prodotta e non semplicemente trovata, ha sempre del soggettivo e non è solo oggettiva, ha un senso ermeneutico rilevante, è sempre storica e mai definitiva perché la sua formulazione ha il proprio principio nella complessità del qui e ora. Per questo al giudizio morale inteso nel senso tradizionale oggi si sostituisce il discernimento.

La nuova teologia morale vuole superare la distinzione tra soggettivo e oggettivo e tra intenzione e azione. Non vale più la regola secondo cui si agisce in base a quello che si pensa, perché anche l’azione sarebbe fonte di un sapere etico e non solo l’intenzione. La situazione con le sue varie circostanze non sarebbe più solo il campo applicativo del giudizio morale ma contribuirebbe alla conoscenza stessa della norma. Per questo va superata la nozione di “azioni intrinsecamente cattive”, ritenuta valida – secondo i nuovi teologi – quando si pensava che l’oggetto materiale dell’azione (cosa si fa) messo in luce dall’intelletto, sia criterio fondamentale del giudizio morale.

Come è noto, i dubia (tutti di carattere morale) che i quattro cardinali hanno presentato a Papa Francesco non hanno avuto risposta. La teologia morale contemporanea spiega così questa mancata risposta del Pontefice: come si poteva rispondere a dubia formulati in quel modo? Ossia in un modo intellettualistico, oggettivistico, astratto? Francesco, quindi, non avrebbe risposto perché quei dubia mancavano di discernimento e impedivano il discernimento. Dal che deriva che il nuovo discernimento agnostico rende impossibile l’insegnamento morale.