Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Agnese da Montepulciano a cura di Ermes Dovico
SPESA FISCALE / 2

Il debito non è ricchezza, la politica dei bonus ci rovina

Ascolta la versione audio dell'articolo

Con il Superbonus 110 hanno avuto benefici solo i privati che ne hanno usufruito e le imprese che ci hanno lavorato, ma i costi sono stati scaricati sulla fiscalità generale, cioè sulla collettività. La soluzione reale consiste nel limitare il ruolo dello Stato nell'economia, cominciando ad abbassare la spesa pubblica.
- ECONOMIA TRAINATA DAL SUPERBONUS? UN'ILLUSIONE, di Maurizio Milano

Economia 07_03_2023

Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto come quella di una crescita globale spinta dalle "spese fiscali" sia sostanzialmente una illusione; e abbiamo iniziato a spiegarlo con l'esempio della "finestra rotta", con cui l'economista francese Frédéric Bastiat (1801-1850) esemplificava il concetto per cui ogni azione del governo e dei privati ha delle conseguenze visibili e altre invisibili.

In conclusione, le spese fiscali spingono certamente il motore della crescita, a livello settoriale e nell’immediato. Ma ciò è vero se ci limitiamo a osservare “quello che si vede”, come fanno i sostenitori dell’interventismo pubblico che evidenziano solo e sempre gli effetti positivi immediati, adducendo anche supposti “effetti moltiplicativi” di tipo keynesiano di tali misure. Ma se guardiamo anche “quello che non si vede”, vedremo gli inevitabili effetti distorsivi sull’economia privata sopra descritti.

Col Superbonus 110, ad esempio, si è indotta una crescita esponenziale dei prezzi dei materiali a causa della gratuità apparente (effettiva per il beneficiario, ma non per il bilancio pubblico, cioè per la generalità dei contribuenti) legata al meccanismo degli sconti in fattura e del trasferimento del credito. Non ci sono dubbi che tali misure abbiano avuto effetti positivi sui beneficiari che hanno potuto realizzare opere importanti sulle proprie case, senza preoccuparsi dell’entità e della congruità dei costi, scaricati sulla fiscalità generale; lo stesso per quelle imprese che hanno beneficiato di fatture gonfiate e di extra-entrate, che altrimenti non ci sarebbero state.

Se consideriamo sia “ciò che si vede” sia “ciò che non si vede”, possiamo però davvero sostenere che il Superbonus 110 abbia determinato un impatto positivo a livello di deficit e debito pubblico? Possiamo davvero dire che alla fine ci abbiano guadagnato “tutti”, grazie ai supposti “effetti moltiplicatori” innescati dalle agevolazioni? Che sia davvero “andato tutto bene”? Perché se fosse così, converrebbe allora finanziare tutto e tutti, sempre: avremmo trovato la pietra filosofale, il modo di creare ricchezza dal nulla, e superato il tema della scarsità delle risorse rispetto a bisogni e desideri. Sarebbe, in altre parole, la fine dell’economia, che è proprio la “scienza della scarsità”.

Da un punto di vista metafisico, ahimè, Dio solo crea dal nulla, non certamente governi e Banche centrali. Il “principio di realtà” in economia impone un equilibrio, almeno tendenziale, tra entrate e uscite, e ciò costringe a fare scelte economiche in base alle preferenze soggettive: ciò è evidente nella gestione del bilancio domestico, come sa perfettamente ogni pater familias, anche senza avere fatto studi economici o finanziari; tale vincolo, invece, sembra sparire d’incanto quando si passa al bilancio dello Stato, e se lo dimenticano anche gli economisti professionisti, figuriamoci i politici.

Nella microeconomia i debiti sono sempre una criticità, lo sappiamo tutti per esperienza, mentre nella macroeconomia, magicamente, possono divenire anche “buoni”, trasformandosi addirittura nella “ricchezza” del Paese: se ciò fosse vero, beati noi che viviamo in un Paese così fortemente indebitato come l’Italia. Se però guardiamo alle dinamiche dei redditi reali del nostro Paese, in termini cioè di potere d’acquisto, ci accorgiamo di essere all’interno di una grande stagnazione pluridecennale, con tendenza a un peggioramento progressivo. La ricchezza non aumenta, viene solo più redistribuita, secondo criteri politici, e la torta tende inevitabilmente a diminuire nel corso del tempo. Il perimetro di intervento pubblico continua a dilatarsi e la classe media a restringersi: che ci sia un rapporto di causa-effetto?

Che cosa fare, allora? La soluzione reale non risiede nei bonus o, tantomeno, nei superbonus. Occorre invece riportare l’ambito di intervento dello Stato in un perimetro più ridotto e coerente col suo ruolo, che non è quello di fare l’imprenditore o scegliere le priorità degli investimenti privati agendo sulla leva fiscale, o sulle regolamentazioni. Abbassare la spesa pubblica sottrarrebbe risorse alle scelte della classe politica e burocratica, riducendo il clientelismo, ed equivarrebbe già a ridurre la pressione fiscale implicita, misurata proprio dall’incidenza della spesa pubblica rispetto al PIL (in Italia circa il 54%, in rialzo rispetto al 48,5% del 2019, pre-pandemia): il dimagrimento del pubblico è la premessa  indispensabile per un successivo taglio anche alla pressione fiscale esplicita, con una revisione organica dell’intero sistema delle spese fiscali e dei bonus a pioggia.

Occorre, per dirla in modo semplice, “distribuire di meno” dal centro e “lasciare più risorse” nelle tasche dei cittadini: saranno loro a scegliere liberamente consumi, risparmi e investimenti in base alle proprie possibilità, priorità e preferenze. Senza bisogno di una balia politica che indirizzi in modo paternalistico le scelte per tutti, secondo criteri a volte ideologici, a volte clientelari e comunque sempre inefficienti e inefficaci: nessun pianificatore centrale, infatti, dispone di tutta la competenza e di tutte le informazioni rilevanti, e neppure può conoscere tutte le conseguenze, immediate e future, delle azioni poste in essere. Come potrebbe, allora, scegliere davvero le soluzioni migliori, per tutti noi?