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L'ANALISI

È l'era degli antidiritti, che legalizzano la distruzione dell'umano

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Aborto, unioni gay, suicidio assistito: sono tutte conseguenze di un pensiero moderno che ha imposto i diritti soggettivi, strumenti di autodeterminazione assoluta che si traducono nella relativizzazione dell'uomo. È necessario un ritorno al diritto naturale.

Editoriali 22_09_2025

Il lessico dei diritti, che domina l’età moderna e contemporanea, è in realtà una costruzione storica recente e segna la frattura con il pensiero giuridico classico. La tradizione aristotelico-tomista, che ha plasmato per secoli l’idea di diritto, non conosceva i diritti soggettivi intesi come sfere individuali illimitate, garantite contro l’autorità politica. Il diritto naturale classico, infatti, non era un insieme di pretese individuali, bensì la misura della giustizia intrinseca ai rapporti umani, un ordine oggettivo delle relazioni che nasce dalla natura delle cose e dalla loro finalità.

Ciò che il pensiero classico conosceva non erano i diritti, ma i doveri, le virtù, le inclinazioni ordinate dell’essere umano al bene e alla vita sociale. Il diritto non era un potere soggettivo, bensì la "res iusta", la cosa giusta che spetta a ciascuno in ragione della sua natura e del suo fine ultimo, che non era mai immanente ma sempre aperto alla trascendenza. Il passaggio all’età moderna ha mutato radicalmente questo paradigma.

Con il giusnaturalismo moderno di Grozio, Hobbes, Locke e poi Rousseau, l’uomo è stato posto come misura unica del diritto, con il conseguente abbandono della teleologia naturale. Il diritto naturale è stato inteso non più come partecipazione della ragione umana alla legge eterna, ma come prodotto della volontà umana astratta, fondata su un presunto stato di natura.
Da qui nasce il concetto moderno di diritti soggettivi, intesi come prerogative individuali che precedono lo Stato e che esso deve garantire.

L’antropocentrismo moderno, in questo senso, si traduce in una concezione della libertà che è emancipazione da ogni ordine superiore, compreso quello naturale e divino. Il diritto diventa così strumento di autodeterminazione assoluta, non più partecipazione a un bene comune oggettivo. La parabola che parte da questa impostazione porta oggi a ciò che si può definire il tempo degli antidiritti.

Ciò che nasceva come strumento di liberazione si è trasformato in meccanismo di distruzione dei fondamenti stessi dell’umano. L’aborto, presentato come diritto della donna, si configura in realtà come negazione radicale del diritto alla vita, il più elementare dei beni. In realtà, se si guarda con rigore logico, non vi può essere un diritto che comporti la soppressione di un altro essere umano innocente, perché ciò equivarrebbe a dissolvere il fondamento stesso di ogni ordine giuridico, che è la tutela della vita. La pretesa di subordinare l’esistenza del concepito all’autonomia della madre si traduce in un conflitto irrisolvibile, poiché il diritto autentico non è mai frutto della volontà del più forte, ma riconoscimento di ciò che è oggettivamente dovuto. Così l’aborto non rappresenta un diritto, bensì un atto di forza legalizzato che sovverte il principio basilare della giustizia.

Le unioni civili e il matrimonio omosessuale, giustificati in nome di una parità formale, minano la struttura naturale della famiglia, cellula originaria e insostituibile della società. Infatti, la famiglia non è una costruzione convenzionale o un prodotto giuridico plasmabile a piacimento, ma una realtà naturale fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, ordinata alla generazione ed educazione della prole. Essa precede lo Stato e ne costituisce la base, in quanto garantisce la continuità della comunità politica e il radicamento dell’individuo in un ordine relazionale originario.
Equiparare giuridicamente unioni che per loro natura non sono aperte alla procreazione con l’istituto matrimoniale significa dissolvere la distinzione tra ciò che è ordinato alla trasmissione della vita e ciò che non lo è, riducendo la famiglia a mera espressione di un affetto soggettivo. Così facendo, si priva il diritto della sua funzione di riconoscimento di un ordine oggettivo e lo si riduce a mera registrazione di desideri individuali, con effetti profondi e destabilizzanti sul tessuto sociale e culturale.

La legislazione sul fine vita rappresenta il compimento di questa trasformazione: il diritto a morire, proclamato in nome dell’autonomia individuale, annulla il valore intrinseco della vita e dissolve il fondamento stesso di ogni comunità politica. Nel caso della non punibilità del suicidio assistito, come stabilito in Italia a determinate condizioni dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 242/2019, l’argomentazione si fonda sull’idea che l’autodeterminazione prevalga su ogni altro bene.

Ora, questa costruzione è intrinsecamente contraddittoria: se la vita non è più un bene indisponibile, allora nessuna ragione impedisce di estendere il medesimo principio ad altri soggetti fragili, minori o incapaci, scivolando verso una progressiva erosione della tutela giuridica dei più deboli. Il suicidio assistito, reso lecito, incrina così la logica stessa della giuridicità, perché se l’ordinamento non protegge più il bene primario, che è la vita, allora non ha più criteri oggettivi per stabilire cosa meriti protezione e cosa no. In tal modo, la norma giuridica diventa puro strumento di decisione soggettiva e il diritto si trasforma in arbitrio legalizzato.

L’Italia, con questa scelta, si è posta sulla medesima traiettoria che ha condotto Paesi come l’Olanda e il Belgio a legalizzare l’eutanasia in senso pieno, con estensioni progressive fino ai minori e ai non consenzienti, mostrando l’inevitabile dinamica di scivolamento etico e giuridico che discende da questo paradigma.

È evidente che siamo passati dal linguaggio dei diritti come garanzie dell’umano al linguaggio degli antidiritti, che legalizzano la distruzione dell’umano. Questo passaggio non è casuale, avendo radici precise nelle correnti filosofiche che hanno dominato la modernità. Il positivismo giuridico ha ridotto il diritto a pura volontà del legislatore, negando ogni riferimento a una giustizia naturale. L’esistenzialismo e il nichilismo contemporaneo, con Heidegger, Sartre e Nietzsche, hanno decostruito l’idea di natura e di essenza, lasciando solo la libertà arbitraria e la volontà di potenza. Le correnti post-strutturaliste e decostruzioniste hanno dissolto ogni fondamento oggettivo del diritto, rendendo il linguaggio dei diritti una mera funzione del potere e delle rivendicazioni soggettive.

Da questo itinerario filosofico-giuridico nasce il "post-umano", un’epoca in cui l’uomo stesso è relativizzato, ridotto a variabile manipolabile secondo desideri e tecniche, privo di un fine proprio e stabile. L’antropocentrismo della modernità, che aveva sostituito Dio con l’uomo, sfocia così nella fine dell’uomo, in una società che si autodistrugge proprio nel nome dei diritti. In questa prospettiva, non è la politica dei partiti a poter offrire un rimedio, perché essa è già interna al paradigma moderno che ha prodotto la crisi.

L’unica via d’uscita è un ritorno a un pensiero alto e nobile, capace di riproporre la politica come arte della regalità, cioè come governo dell’uomo e della società ordinato al bene comune e alla giustizia. La vera politica è guida che orienta al fine ultimo, non gestione di interessi particolari. E il diritto non può essere inteso come insieme di pretese soggettive, ma come partecipazione all’ordine della giustizia che la legge positiva deve tradurre in norme concrete. Solo recuperando questa visione classica, che unisce filosofia, teologia e giurisprudenza in un orizzonte integrale, sarà possibile uscire dall’età degli antidiritti e restituire al diritto la sua vera natura di misura del giusto, strumento della convivenza ordinata e via alla realizzazione della dignità umana in rapporto al bene.



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Interesse pubblico e scelte private: il criterio della legge naturale, «valida universalmente», che Leone XIV ha indicato come «bussola» per legislatori e governanti, è decisivo per realizzare il bene comune.

IL LIBRO

Senza diritto naturale non c’è giustizia, de Tejada conferma

04_03_2023 Fabio Piemonte

In Filosofia del diritto pubblico, il giusnaturalista Francisco Elías de Tejada evidenzia la necessità di riconoscere il diritto naturale quale base della società, affinché questa sia realmente civile e ordinata alla giustizia. Se il diritto positivo è svincolato dal diritto naturale, invece, si genera una «tirannia animalesca».