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DOTTRINA DIMENTICATA

Dopo la morte incontriamo Cristo Giudice (non un notaio)

Il Catechismo ricorda l’urgenza di attendere alla Salvezza finché si è in terra. Oggi c'è chi dice che Dio si limiti a ratificare la nostra volontà. È verissimo che «chi pecca, danneggia se stesso» (Sir 19,4), ma il Signore nelle Sacre Scritture non è un mero notaio, bensì Giudice. Ciò, insieme all’immutabilità dopo la morte, ha delle ricadute su Inferno e Paradiso. Vediamole

Ecclesia 31_10_2020

Per i giorni dedicati ai Santi e ai Defunti attiro l’attenzione su alcuni punti di dottrina, problemi teologici e di linguaggio, che non sempre vengono affrontati correttamente.

DOPO LA MORTE NON SI CAMBIA

«La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è “finito l’unico corso della nostra vita terrena” (LG 48), noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. “È stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta” (Eb 9,27). Non c’è “reincarnazione” dopo la morte» (CCC 1013).

Possiamo accettare le affermazioni del Catechismo, ma non è semplice immaginare l’immutabilità dopo la morte, dal momento che questa vita, dalla politica agli affetti, è caratterizzata dalla mutabilità e, per quanto riguarda il nostro mondo interiore, è possibile cambiare sempre.

I teologi hanno provato a rendere ragione di questa immutabilità ed è interessante un’elaborazione di san Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles (IV,XCV, nn. 4272-4280), dove spiega che ognuno desidera la felicità, ma, che poi la collochi in una cosa o in un’altra, dipende da una “disposizione” che può essere una passione passeggera o una disposizione stabile (virtù o vizio), in ogni caso prodotta tramite il corpo, sia pure sotto l’influsso di facoltà superiori come l’intelletto e la volontà. Senza il corpo l’anima non può cambiare orientamento, ma solo “riposarsi” nell’orientamento nel quale si trova (sed ut in fine adepto quiescat).

Dal che si evince l’urgenza di attendere alla salvezza e di formarsi delle buone abitudini finché si è nel corpo. Ma anche si può verificare quanto sia infondata la critica alla teologia e al linguaggio tradizionale di non tenere conto dell’unità dell’uomo quando si distingue anima e corpo: se ne tiene talmente conto sino ad arrivare a dire che senza il corpo l’anima si trova in difficoltà a posizionarsi nei riguardi di Dio!

DIO NON SI LIMITA A FARE IL NOTAIO

Il notaio assicura l’autenticità e la correttezza giuridica di certi atti che le persone emettono (compravendite, testamenti, donazioni, costituzione di associazioni ecc.), ma non emette una sentenza e semplicemente prende atto della volontà delle parti in causa.

Dio farà così nel momento in cui ci presenteremo a Lui uscendo da questa vita, cioè si limiterà a ratificare la nostra volontà? Qualcuno tende a dirlo, ma la realtà sembra diversa. Tutti infatti dovremo «comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10). “Comparire in tribunale” presuppone un atto giudicante da parte di Cristo e una sentenza di assoluzione o di condanna. San Tommaso d’Aquino, commentando 2Cor 5,10, spiega che nel giudizio ci saranno due atti: la valutazione dei meriti e l’emissione di una sentenza. E non professiamo ogni domenica nel Credo che Gesù Cristo «verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»?

D’altra parte, tale è il linguaggio di altri passi del Nuovo Testamento che presentano Cristo/Dio Giudice e non notaio: il Figlio dell’uomo sta per venire con i suoi angeli «e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27) e non si limiterà a prendere atto delle nostre scelte; ci sarà il «giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che (...); ira e sdegno contro coloro che (...)» (Rm 2,5-8); infine: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere» (Ap 22,12).

Dio che non si limita a fare il notaio e l’immutabilità dopo la morte hanno qualche ricaduta sul Paradiso e sull’Inferno. Vediamole.

IL PARADISO È “ANCHE” UN PREMIO DEI MERITI

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). Per l’apostolo Paolo “quelle cose” sono già le ricchezze dell’attuale vita cristiana, ma la tradizione le ha intese soprattutto per la beatitudine del Paradiso, dove Dio «asciugherà ogni lacrima» dagli occhi degli eletti «e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4), dove «vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello» e i suoi servi «vedranno il suo volto» e non avranno più bisogno del sole «perché il Signore Dio li illuminerà» (Ap 22,3-5).

Non saranno però gli eletti a occupare direttamente la Gerusalemme del cielo, ma vi saranno introdotti, come si evince dalla conclusione positiva della parabola dei talenti: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21.23). Cioè Dio non si limiterà a fare il notaio, anche perché il premio della beatitudine sorpassa il semplice conto dei meriti.

Ma - ecco l’altra faccia della medaglia - i meriti ci sono e il Paradiso va anche “guadagnato”. Il Concilio di Trento insegna che Cristo ci salva non per nostri meriti precedenti, ma poi il dono ricevuto diventa anche «merito di colui che è giustificato» e questi «con le buone opere da lui compiute per la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo (...), merita realmente l’aumento della grazia e la vita eterna» (D 1582) «come ricompensa» (D 1545).

Se le buone opere sono dono di Dio, non è detto che psicologicamente si avverta la mozione divina, per cui sono in tutto opere nostre e dunque la vita cristiana è anche una santa battaglia, una milizia, una pianificazione virtuosa per arrivare in Paradiso: «L’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole» (2Tm 2,5).

Oggi tutto ciò è sbeffeggiato con un “dentro tutti (al Paradiso)” in nome della misericordia, della gratuità divina, delle riserve sulla (buona) meritocrazia umana sempre più sottovalutata a cominciare dalla pedagogia. Invece il Concilio di Trento insegna che si può addirittura cominciare dalla «paura dell’Inferno, grazie alla quale, dolendoci dei peccati, ci rifugiamo nella misericordia di Dio e ci asteniamo dal male» (D 1558) e da qui essere ammessi in Paradiso.

L’INFERNO È “ANCHE” CONSEGUENZA DI UNA SENTENZA DIVINA

Per salvare Dio dalla brutta figura di Colui che punisce e che manda all’Inferno, si dice che siamo noi a punirci con i nostri peccati e che il castigo finale da parte di Dio non sarà altro che un prendere atto della nostra perversa e ostinata decisione. Ma è vero?

Sì, è verissimo: «Chi pecca, danneggia se stesso» (Sir 19,4), «chi pecca contro di me [contro la Sapienza, contro Dio] fa male a se stesso, quanti mi odiano amano la morte» (Pr 8,36). Il peccato produce un male (tristezza, vita sprecata, relazioni distruttive ecc.) che è già una punizione senza che intervenga qualcun altro a punire. La Chiesa ha sempre insegnato questo soprattutto in riferimento all’ultimo disastro della vita umana che è l’Inferno. Dio vuole «che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4) e «non predestina nessuno ad andare all’inferno» (CCC 1037); quanti ci vanno, ci vanno perché si sono fatti da se stessi vasi d’ira per la perdizione (cfr. Rm 9,22) «grazie a una decisione della loro volontà» (Pelagio I, Lettera al Re Childeberto del 3 febbraio 557: D 443). Per l’attuale CCC l’Inferno è «auto-esclusione» da Dio e dai fratelli, definitiva «avversione volontaria a Dio» (nn. 1033, 1037).

Ciò affermato a nostra consolazione, bisogna riconoscere che il mistero è più profondo e in questo caso Dio non fa il notaio. Secondo il NT, Gesù Cristo è giudice ed è attivo nel separare, nel giudicare, nell’allontanare da Sé: gli angeli da Lui mandati «separeranno i cattivi dai buoni», «raccoglieranno» i cattivi, «li getteranno nella fornace ardente» (Mt 13,41-42.49-50) e dunque non saranno solo i cattivi a “posizionarsi” di fronte agli angeli che stanno a guardare; il Figlio dell’uomo «separerà gli uni dagli altri» (Mt 25,32), dirà «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41; cfr. anche 7,23).

Ciò è tanto vero che il Vaticano II raccomanda di vegliare perché «non ci venga comandato (...) di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41) (neque... iubeamur discedere in ignem aeternum)» (LG 48: EV 1/418). “Non ci venga comandato di andare”: questo linguaggio è possibile perché la realtà comporta i due aspetti: la nostra autodeterminazione e una sentenza divina, aspetti da tenere insieme evitando di eliminarne uno che è scomodo, cioè la sentenza divina.

Ma la sentenza divina è disdicevole per Dio solo se la si pensa in termini umani, in relazione ai quali comporta due differenze che la rendono più che accettabile. Anzitutto il giudizio di Dio, oltre ad essere assolutamente giusto, è in sintonia con la scelta della persona giudicata, che vuole allontanarsi da Lui. Quasi mai nelle sentenze umane di condanna c’è questa identità di analisi e di volere tra il giudice e l’imputato.

In secondo luogo il giudizio di Dio non ha nulla di vendicativo in senso umano, come nel caso di un giudice che inquisisce imputati da una sola parte - le leggi con i nemici si applicano e con gli amici si interpretano (Giolitti) - o che lascia il sopravvento ad «altre forze negative, quali il rancore, l’odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell’azione» (Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 12).

Con queste precisazioni e tenendo insieme le due prospettive, i testi del NT stanno in piedi, altrimenti bisognerebbe snervarli del loro vigore. E Cristo, invece di dire: “Allontanatevi da me, andate nel fuoco eterno”, dovrebbe dire: “Adesso fate pure quello che avete deciso”...

Mi resta un dubbio. Il giugno scorso la commissione dottrinale della CEI ha espresso una valutazione sul Covid, precisando che quanti hanno parlato di castighi di Dio «non pensano secondo il Dio della Bibbia»: non è che il sottoscritto continua a pensare non secondo il Dio della Bibbia? E mi sorge ancora un altro dubbio: ma il Dio dei teologi della CEI esiste veramente?