Cardinali che potrebbero restare come rifugiati, ma tornano nei Paesi in guerra
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Sud Sudan, Haiti, Myanmar e non solo: Paesi dove sacerdoti e fedeli laici subiscono ogni giorno violenze e persecuzioni causate da guerra e odio politico e religioso. Presenti a Roma per il Conclave, questi cardinali avrebbero diritto allo status di rifugiato. Ma tornano per stare al fianco dei loro fedeli, accettando di condivderne i rischi.

I cardinali che hanno partecipato al Conclave lasciano Roma, tornano a casa. Alcuni di loro però, e non pochi, se volessero potrebbero chiedere asilo al governo italiano e otterrebbero senz’altro lo status di rifugiato perché vivono in paesi in cui la violenza regna sovrana e nessuno è al sicuro, specie se è cristiano. Neanche loro.
L’8 maggio, mentre il cardinale Stephen Ameyu Martin Mulla era intento al voto nella Cappella Sistina, nel suo paese, il Sudan del Sud, degli uomini armati, forse malviventi o forse combattenti di una delle tante milizie etniche, hanno fatto irruzione nel complesso della parrocchia di Santa Maria Aiuto dei Cristiani e hanno ucciso Paul Tamania, un coordinatore dell’Organizzazione cattolica per lo sviluppo e la pace della diocesi di Tombura-Yambio. Nella stessa parrocchia il 10 dicembre scorso era stato ucciso James Undo, il direttore del coro parrocchiale, anche lui vittima di uomini armati che senza motivazione apparente erano entrati in chiesa e avevano incominciato a sparare a raffica per poi dileguarsi.
La parrocchia di Santa Maria Aiuto dei Cristiani da tre anni ha creato un campo profughi che accoglie migliaia di sfollati in fuga dalle violenze che continuano a sconvolgere il paese, dopo l’inizio della guerra civile nel 2013. Gli scontri si sono intensificati ed estesi nelle ultime settimane in seguito all’accentuarsi delle tensioni ai vertici del governo tra i leader Dinka e Nuer, le due etnie maggioritarie che si contendono cariche politiche e potere da quando il Sudan del Sud è diventato indipendente nel 2011. «La Chiesa non è un campo di battaglia, è un luogo sacro, un rifugio dove le persone vengono a trovare la pace di Dio, non la crudeltà dell’uomo – si legge nel comunicato diffuso da monsignor Barani Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio all’indomani dell’attacco – e che un tale santuario venga violato è un peccato grave e una ferita alla nostra umanità collettiva». Rivolgendosi alle autorità, «salvate il vostro popolo – ha detto – ripristinate la pace e la sicurezza. È vostro solenne dovere proteggere la vita e la dignità di tutti i cittadini».
Il cardinale Chibly Langlois avrebbe anche lui altrettanto e più motivo ancora di chiedere asilo. Vive ad Haiti, è il vescovo di Les Cayes. Haiti è da anni ormai in gran parte terreno di conquista e di scontro di centinaia di bande armate che vivono di attività illegali. Nella sola capitale Port-au-Prince ce ne sono circa 300. Il mese scorso monsignor Max Leroys Mésidor, arcivescovo della capitale e presidente della Conferenza episcopale haitiana, ha comunicato ai mass media vaticani che per motivi di sicurezza è stato costretto a chiudere completamente 28 parrocchie della sua arcidiocesi e che in altre 40 le attività pastorali proseguono a intermittenza, sotto costante minaccia. «Haiti è in fiamme e sanguina: aspetta un sostegno urgente. Chi verrà ad aiutarci?» domandava al mondo denunciando, oltre all’inerzia delle autorità haitiane, quella del contingente di poliziotti kenyani mandati più di un anno fa – unico intervento internazionale sotto l’egida dell’Onu finora attuato – del tutto impreparati e per niente motivati a rischiare la vita.
Nei primi tre mesi del 2025 ad Haiti sono morte 1.617 persone e 580 sono state ferite in scontri, aggressioni, attacchi a strutture pubbliche e private. Quasi metà sono civili. «Il popolo haitiano è un popolo martire – sono parole di padre Marc-Henry Siméon, portavoce della Conferenza episcopale haitiana – e la Chiesa che è in comunione con questo popolo vive questa sofferenza nella sua carne». Tanti sono i sacerdoti, i missionari laici, le suore che hanno già perso la vita. Il lutto più recente nella Chiesa cattolica è stata la perdita, lo scorso marzo a Mirebalais, di Evanette Onezaire e JeanneVoltaire, due suore delle Piccole Sorelle di Santa Teresa di Gesù Bambino, uccise quando una coalizione di bande armate, la Viv Ansanm, ha invaso la città e le aree circostanti e ha attaccato esercizi commerciali, stazioni di polizia e persino l’ospedale universitario.
Nel Myanmar la giunta militare al potere con un colpo di stato dal 2021 continua a bombardare i territori in cui le milizie popolari sfidano l’esercito governativo. È questa la difficile realtà a cui va incontro il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, tornando a casa. Dall’inizio dell’anno già tre chiese sono state deliberatamente colpite. A febbraio a Mindat, nello Stato di Chin, è stata bombardata la chiesa del Sacro Cuore di Gesù. Sono stati danneggiati in particolare il tetto e le vetrate rendendo l’edificio inagibile. Poi, alla vigilia della festa di San Patrizio che cade il 17 marzo, i soldati governativi hanno dato fuoco alla cattedrale dedicata al santo a Bhamo, nello stato del Kachin, di cui a febbraio avevano già distrutto incendiandoli la canonica, l’edificio che ospitava gli uffici diocesani e la scuola superiore annessa. Tuttavia la cattedrale, benché seriamente danneggiata, non è andata del tutto perduta. Ad aprile i bombardamenti hanno distrutto la chiesa cattolica di Cristo Re a Falam, una cittadina che fa parte della diocesi di Hakha, nello stato di Chin. Dal novembre del 2023 quel che resta della cattedrale di Cristo Re, nello stato del Kayah, è occupato dall’esercito governativo che, dopo averla bombardata, l’ha trasformata in una sua base operativa. Il suo vescovo, monsignor Celso Ba Shwe, da allora è sfollato insieme a tutti i sacerdoti e i religiosi della diocesi. Ha vissuto in foresta per settimane, insieme a decine di migliaia di fedeli della sua diocesi invasa, prima di trovare un rifugio sicuro.
Dove si combatte, l’insicurezza fa sì che molti fedeli non riescano neanche a frequentare la chiesa, se ancora ne hanno una. Nonostante i rischi e le minacce, i sacerdoti continuano a prodigarsi per i fedeli, per assicurare loro il conforto dei sacramenti e per assisterli, a costo della vita. L’ultima vittima è padre Donald Martin Ye Naing Win, parroco della chiesa di Nostra Signora di Lourdes, nella regione di Sagaing, una di quelle più gravemente colpite dalla guerra. È stato ucciso a febbraio, nella sua canonica.
In Africa, America, Asia altri cardinali ancora vivono e condividono le difficoltà e i pericoli dei loro religiosi e dei loro fedeli.
1. continua