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ECONOMIA

Art. 41: buona riforma ma la frustata è altra cosa

Le recenti misure varate dal governo per dare una scossa all'economia denotano buona volontà, ma la portata appare decisamente limitata.

Attualità 14_02_2011
grafico La volontà del governo di dare una scossa all'economia si è espressa nei giorni scorsi con un doppio binario: da una parte una serie di provvedimenti che dovrebbero migliorare il sistema degli incentivi e facilitare l'attuazione del piano casa e la realizzazione di grandi opere pubbliche; dall'altra parte la proposta di una riforma costituzionale per riscrivere l'art.41 della Costituzione lasciando spazio al principio secondo cui "è tutto permesso tranne ciò che è esplicitamente vietato".

Sugli incentivi e le infrastrutture le decisioni appaiono positive, anche se di portata complessivamente limitata e legate alla possibilità, ancora da dimostrare, di metterle in pratica in tempi brevi. Sulla riforma costituzionale invece appare lecita, anzi doverosa, qualche perplessità non tanto sull'opportunità, quanto sui risultati concreti che si potranno ottenere.

L'articolo 41 sente indubbiamente tutto il peso degli anni perché appare un classico caso di compromesso tra le due grandi visioni che hanno contraddistinto il lavoro dei padri costituenti: da una parte le forze "liberali" convinte della necessità di ribadire le fondamenta del libero mercato, dall'altra gli esponenti che volevano ribadire la prospettiva sociale, magari anche socialista, dell'economia e quindi intendevano affidare allo stato un deciso compito di programmazione. Ne è nato così un ircocervo in cui si afferma un valore, la libera iniziativa, ma per poi introdurre limiti e tutele che arrivano a ridurre notevolmente la portata dell'affermazione iniziale.

E l'art. 41 più che fare propria l'ispirazione che ha contrassegnato lo sviluppo economico della Germania, cioè l'economia sociale di mercato, si muove in un sottile equilibrio tra ambizioni diverse e talvolta contrastanti.

Una revisione dell'art. 41 appare quindi utile, anche per tener conto di sessant'anni di sviluppo del pensiero economico e, in particolare, del recepimento dei principi ispiratori dell'Unione europea ribaditi con precisione nel trattato di Maastricht del 1992. In questa prospettiva la revisione sarà tanto più utile quanto più riuscirà a sottolineare quel principio di sussidiarietà che dovrebbe costituire una componente importante della tanto decantata riforma federalista dello Stato.

Ma è a questo punto che cominciano i dubbi, non tanto sulla riforma in sè, quanto sull'effettiva possibilità che da questa possa nascere quella frustata all'economia di cui tanto si parla per dare sostanza e forza alla crescita, tuttora asfittica, del Paese. E questo soprattutto perché non si vedono segnali da parte della politica nel suo complesso di comportamenti nuovi capaci di cambiare la strategia di difesa statalistica e corporativa di questi ultimi anni.
Di vere semplificazioni e di concrete liberalizzazioni l'Italia avrebbe infatti un gran bisogno. E invece nulla si muove sui fronti, per esempio, degli ordini professionali e dei servizi pubblici locali. Ci sono riforme che potrebbero ridurre il ruolo dei centri di spesa pubblici, per esempio l'abolizione delle province, ma che non riescono mai a fare passi avanti.

C'è quindi un problema di concrete scelte politiche che difficilmente sembrano poter cambiere anche di fronte a sostanziali modifiche costituzionali. Con il rischio anzi di fare di fare di questa riforma un alibi per continuare gattopardescamente sulla strada di sempre.