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LA STORIA

Andrea, nome e corpo di 9 settimane. Per risorgere

«Quando scoprii di essere incinta fummo grati a Dio. All'ecografia sentii il cuore del piccolo battere, ma morì a 9 settimane. Il dolore che provavo era quello per la perdita di un figlio. Con mio marito siamo riusciti a spostare lo sguardo verso l’alto: “È già in cielo. Dio lo ama". Ottenere il funerale è stata un’odissea, ma la Provvidenza ci aiutò... dentro avevo una consolazione: "Questo bambino, questo funerale devono aprire molti occhi"». Una storia esemplare di vita di due genitori. 

Editoriali 16_06_2020

Pubblichiamo la verace testimonianza di una mamma, Cecilia Galatolo, che, insieme al marito Marco, ha deciso di seppellire il figlio dopo un aborto spontaneo alla nona settimana. Il funerale, la bara e l'aiuto delle onoranze funebri mostrano che quelli che spesso vengono considerati morti di serie B o che vengono uccisi in grembo e definiti grumi di cellule, sono esseri umani dal valore inestimabile.

Avere un altro bimbo non era ancora precisamente nei nostri piani (lo immaginavamo forse un po’ più in là), ma se era nei piani di Dio, a noi andava bene. Ed eravamo aperti alla vita.

Quando il 16 aprile abbiamo scoperto di attendere il nostro terzo bebè, da un lato eravamo spiazzati (sarebbe arrivato il terzo figlio in tre anni! Non avevamo ancora festeggiato 4 anni di matrimonio…), dall’altro eravamo grati a Dio per la fiducia che ci dava. Dimostrava di credere in noi ancora una volta.

Il 30 aprile mi sono sottoposta alla prima visita e ho sentito il cuore di mio figlio pulsare, lui era vivo! Che gioia… ero di nuovo diventata tempio per la vita. Seppur piccolo come un chicco di riso, lui c’era: aveva già un’anima immortale e ai miei occhi era prezioso come gli altri due bimbi.

Ciò che non sapevamo ancora, però, era che su Andrea, Dio aveva dei piani particolari. Il 4 giugno, a seguito di alcune perdite sospette, mi sono recata in ospedale. Inizialmente mi hanno fatto intuire che probabilmente non era nulla di grave, ma poi… ecco una doccia gelida piombarmi addosso (e mio marito, a causa del Covid, non era neppure con me): nostro figlio non c’era più. Aborto interno, già da due settimane.

Sono scoppiata a piangere, non potevo crederci: quel bimbo che aveva sconvolto le nostre vite, che ci aveva fatto sognare il futuro con tre pupetti, quel bambino atteso dai nonni, da tutti quelli che ci volevano bene, quel bimbo che doveva essere il nostro “regalo di Natale”, non c’era più: era già volato via, a sole 9 settimane.

“Lo so, mi dispiace, si vive come un lutto”, mi ha detto la dottoressa. Avrei voluto rispondere: “Si vive come un lutto? Perché, che cos’altro sarebbe?” Il dolore che provavo per quella perdita era a tutti gli effetti il dolore per la perdita di un figlio, con l’aggravante che lo portavo ancora dentro di me, senza vita. “Non è stata colpa tua, probabilmente c’era un’alterazione cromosomica e non si poteva fare nulla…”

Dopo aver pianto tutte le lacrime che avevo, ho chiamato mio marito per dirgli ciò che era accaduto. Insieme, siamo riusciti a spostare lo sguardo dal basso verso l’alto, da una morte incomprensibile, alla vita eterna: “Nostro figlio è già in cielo. Dio lo ama. – gli ho detto - È con Lui, ora. Se Dio lo ha chiamato in cielo così presto, deve esserci un piano, un disegno, che noi dobbiamo comprendere”.

La dottoressa mi aveva detto, prima di lasciarmi telefonare a mio marito, che avevo due possibilità: aspettare l’espulsione per vie naturali, oppure sottopormi al raschiamento. «Io voglio fare l’intervento, anche se i medici non lo consigliano, perché voglio dargli un funerale e seppellirlo: non è solo materiale organico, è nostro figlio e la sua vita è preziosa. Voglio onorarla fino alla fine…

Ottenere il funerale è stata un’odissea! Vi dirò la verità, ascoltando solo i medici, all’inizio, ci avevo quasi rinunciato e mi ero accontentata di una benedizione al mio piccolo in ospedale… ma mio marito no, non si è arreso e ha chiamato le pompe funebri. Sono stati gli addetti delle pompe funebri a dirci che per legge era possibile, si sono informati, hanno ottenuto tutti i permessi, hanno speso 3 giorni di lavoro per noi (senza farci pagare nulla: ci hanno regalato l’intero servizio funebre!) perché la nostra richiesta fosse esaudita. Tutta provvidenza, davvero.

Il funerale si è svolto sabato 13 giugno: giorno in cui ricorre l’anniversario della nascita in Cielo di Chiara Corbella. Una luminosissima coincidenza, per noi che siamo molto legati al suo modo di guardare alla vita. Quando siamo arrivati in chiesa, al centro della navata c’era una cassettina bianca meravigliosa, con due angeli incastonati. Dentro c’era proprio mio figlio… “Andrea S.”, c’era scritto.

Guardavo quella piccola bara bianca e pensavo che già avrei dato la vita per quel bambino. “Se fossi rimasto con noi, - gli ho detto - avrei provato a essere la tua mamma per tutta la vita, avrei sbagliato tante volte, lo so, ma ci avrei provato come sto facendo coi tuoi fratelli".

Durante quella celebrazione mi sono accorta ancora di più che tutto era vero, reale: quel bambino era davvero stato dentro di me, era stato con noi; aveva un nome, un cognome, come tutti. Aveva un corpo, destinato alla Resurrezione nell’ultimo giorno, proprio come i nostri.

Non sappiamo quanto lui si sia reso conto di esistere, ma della sua esistenza assolutamente reale, concreta, ci eravamo resi conto noi genitori, i nostri parenti ed amici, il sacerdote che avrebbe celebrato, i responsabili delle pompe funebri che avevano predisposto ogni cosa, gli operai del cimitero che avevano scavato la fossa. E prima di tutto si era reso conto Dio, che era proprio lì, nel tabernacolo, dietro di lui.

Era triste pensare che mi fosse già stato portato via, ma dentro avevo una grandissima consolazione, una pace che non potevo darmi da sola. “Questo bambino, questa morte prematura, questo funerale devono aprire molti occhi”, avevo sentito varie volte in preghiera, dopo aver saputo che era già volato in cielo. Non sapevo quali occhi avrebbe dovuto aprire, ma sapevo che Dio, in qualche modo, si sarebbe servito di lui per portare un bene più grande del mio dolore. Mi fidavo.

“Vedrai che la prossima volta andrà meglio”, mi avevano detto per consolarmi. Ma in che senso sarebbe dovuto andare meglio la prossima volta? Se Dio aveva voluto chiamare alla vita mio figlio, lo aveva desiderato anche prima di noi, lo aveva accolto con sé, potevamo davvero dire che qualcosa fosse andato male? O era più giusto dire che le cose non erano andate secondo i nostri piani?

Intendiamoci: perdere un figlio è un dolore immenso. So di cosa parlo, ora. Ma mentre lo seppellivamo pensavo che il nostro bambino non era stato un fallimento, un errore della natura da dimenticare. Dio crea per l’eternità. No? O crediamo questo o non siamo cristiani.

Ho trovato pace di fronte alla morte di Andrea non quando mi sono convinta che “non era ancora nessuno e avevamo ancora tempo per fare un altro figlio”, ma quando ho capito che un terzo figlio lo avevamo avuto; godeva già il Paradiso e ci sarebbe stato riconoscente in eterno per il dono della vita.