Anche una recita di Natale può salvare la civiltà dal crollo
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Un articolo "rivelatore" di una cultura che alimenta il suicidio demografico punta l'indice sugli eventi natalizi nelle scuole: inutili e persino dannosi per l'economia. E invece ci aiutano a invertire la rotta, custodendo il seme durante l'inondazione.
Mancano pochi giorni al Santo Natale e in tante scuole, particolarmente dell’infanzia e primarie, si svolgono le recite dei bambini dedicate alla Natività, in forma di rappresentazione teatrale oppure come presepe vivente. Certo, in genere non si tratta di capolavori artistici, ma sono pur sempre una occasione di immedesimazione e di crescita, sia per i fanciulli che interpretano i personaggi, sia per gli adulti che partecipano come spettatori, “costretti” a mollare per qualche ora il pressante mondo della produzione e fissare lo sguardo sulla semplicità della capanna di Betlemme.
Sta girando in rete in questi giorni, tuttavia, un articolo (Le recite di Natale sono una c***ta pazzesca) che deride proprio le recite di Natale dei bambini, giungendo persino a calcolarne il danno economico apportato al PIL (Prodotto Interno Lordo), quantificato in oltre 700milioni di euro. Celandosi dietro un paravento semicomico (a cominciare della titolo fantozziano), in realtà trasuda disprezzo e supponenza, come giustamente sottolinea Maria Rachele Ruiu, portavoce di Pro Vita & Famiglia: «La questione economica è ridicola, ma il punto vero è un altro: l’incapacità adulta di riconoscere valore a ciò che non performa. A ciò che è lento, imperfetto, emozionato. Serviva ribadire che i bambini disturbano. Che il tempo dedicato a loro sottrae energie alle cose “serie”. Che la vita, se non è efficiente, è fastidiosa. È questa la cultura che respiriamo: tutto deve servire a qualcosa, tutto deve rendere, tutto deve piacere. L’articolo stesso cita i video che “girano sui social”, senza accorgersi che sta giudicando la vita con gli stessi criteri dei social: siamo ormai social viventi. È uno sguardo radicalmente adultocentrico, che misura tutto sul metro dell’adulto efficiente e considera l’infanzia solo per ciò che toglie, mai per ciò che è…».
Sono questi i frutti avvelenati (e, nello stesso tempo, nuove iniezioni di veleno) di una cultura suicida che sta portando il nostro Paese alla morte civile, spacciandola per conquista di civiltà. Ci si chiede come mai non si facciano più figli, ma la risposta è tra le righe di questo articolo che – come spiega la Ruiu – «non è solo banale, è rivelatore».
E a proposito di denatalità, proprio in questi giorni sono stati pubblicati i dati ISTAT sul Censimento permanente della popolazione relativi al 2024: saldo naturale pesantemente negativo (-283.165); record negativo storico di nuovi nati nel 2024, 369.944 (-2,6%), quasi 10.000 in meno rispetto al 2023; tasso di natalità che scende a 6,3 per mille (da 6,4); numero medio di figli per donna al minimo storico di 1,18; età media al parto salita a 32,6 anni. Insomma, un vero e proprio disastro nazionale, ancora sottovalutato da società e istituzioni benché annunciato da tempo. E tutto questo senza considerare che una buona parte delle nascite proviene da famiglie di immigrati.
Del resto, ormai da anni siamo immersi in una cultura che banalizza la maternità, il matrimonio e i nascituri, e che addirittura (come ci mostra l’articolo in questione) irride queste scelte come retrograde e persino dannose per l’economia, spingendo a considerare il figlio come un “problema” da rimandare o persino evitare. E intanto il nostro Paese muore.
È vero, come dichiara Pro Vita & Famiglia in un suo comunicato, «occorrerebbero misure politiche ed economiche strutturali, incentivi costanti al posto di pochi e sporadici bonus per nuovi nati, per le famiglie numerose e per mamme e papà che decidono di occuparsi della famiglia ma non dovrebbero essere così costretti a scegliere tra lavoro o figli. Senza figli non c’è futuro, e senza futuro non c’è neppure welfare che regga»; il problema, tuttavia, non è solo economico o politico, ma innanzitutto culturale.
Ne aveva parlato Tommaso Scandroglio su queste pagine, con una analisi puntuale e dettagliata: da un sondaggio condotto in diversi Paesi europei emerge che i giovani italiani sono i meno propensi ad avere figli, non più considerati una parte essenziale della nostra vita. Quegli stessi giovani che, ormai, non considerando più il matrimonio una opzione necessaria e orientandosi verso la convivenza, non contemplano più nella “tabella di marcia” la generazione di figli, dato che la convivenza è per sua stessa natura una scelta egoistica e intessuta di incertezza affettiva.
Come se ne esce, allora? Ogni mutazione culturale necessita di tempi lunghi; quanto vediamo oggi è il frutto di un percorso che è iniziato parecchi decenni fa e con il concorso di numerosi fattori concomitanti, tra cui il passaggio dalla famiglia allargata a quella nucleare e, infine, alla non-famiglia. Occorrerà tempo, e non basteranno le pur necessarie riforme politiche ed economiche strutturali, se non si invertirà la rotta a livello culturale e di consapevolezza comune. «Abbiamo bisogno di qualcosa – o di qualcuno – che ci alzi la testa dai nostri ombelichi – afferma Ruiu – o che ci costringa a uscire da noi stessi, ricordandoci che siamo chiamati a qualcosa di più grande di ciò a cui ci stanno abituando».
Ma come potrà avvenire, questo, in un mondo che pare andare in direzione opposta a velocità crescente? Duole dirlo, ma si dovrà pagare il conto di cotanta follia, perché di follia si tratta. Questa civiltà sta demolendo le basi della propria stessa esistenza, senza sostituirle con qualcosa di solido e durevole, ed è dolorosamente destinata al crollo.
Per questo, come spiegò Gesù al don Camillo di Guareschi, nel tempo della inondazione occorre custodire il seme. L’inondazione, il crollo della nostra civiltà, ecco cosa ci costringerà ad alzare la testa e a uscire da noi stessi. E allora sarà fondamentale aver conservato il seme, anche con le recite di Natale.


