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ITALIA POLITICA

2011 fuga dal Pd, ossia il "Partito della diaspora"

Cambiare Gruppo parlamentare è uno sport nazionale. Ma a sinistra il solo antiberlusconismo non paga. E tornano i vecchi apparati del Pds.

Attualità 25_02_2011
Pierluigi Bersani da solo
Era il 27 ottobre 2009 quando Francesco Rutelli annunciava la sua uscita dal Partito democratico portando con sé alcuni fedelissimi tra i quali Linda Lanzillotta e Lorenzo Dellai. Nell’aprile 2010 usciva Luciana Sbarbati con il suo Movimento Repubblicani Europei. Il 14 febbraio 2010 Paola Binetti annuncia l’addio dal partito in contrasto con la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio. Anche Renzo Lusetti ed Enzo Carra fanno lo stesso. Il 22 febbraio scorso il senatore Pd Claudio Molinari, trentino ex Margherita amico di Dellai, ha lasciato il Pd per aggregarsi con l’Alleanza per l’Italia di Rutelli. Sui senatori Pertoldi e Bosone erano sorte voci di abbandono poi rientrate che però avevano fatto fibrillare la senatrice Finocchiaro, capogruppo a Palazzo Madama. Il 15 febbraio ha dato le dimissioni la senatrice Francesca Baio anche se, in precedenza, aveva bollato come “indegne” le voci che anticipavano questa sua scelta. In precedenza se ne erano andati: Dorina Bianchi, Pierluigi Mantini, Achielle Serra, Bruno Cesario, Gianni Vernetti, Claudio Gustavano, Riccardo Villari, Lorenzo Ria, Massimo Calearo, Donato Mosella, Bruno Cesario, Marco Calgaro e Antonio Gaglione.

Il fenomeno della fuga dal Partito democratico si presta a due ordini di considerazioni: uno generale ed uno  proprio di questo partito.

In generale, il cambio di Gruppo parlamentare è ormai molto frequente e generalizzato e non riguarda solo il Partito democratico. Ci sono deputati che hanno lasciato il Pdl e che poi vi sono rientrati, altri che non sono mai più rientrati e sono confluiti chi nel Fli di Fini chi nel Gruppo misto. Nel Pd un tempo qualcuno vi era anche entrato come l’ex segretario Udc Follini. Di recente s’è formato il gruppo dei “Responsabili” che intendono sostenere la maggioranza di governo pur senza essere stati eletti nelle liste del Centrodestra. Uno caso emblematico quello di Paolo Guzzanti: uscito dal Pdl e confluito dapprima nel Partito Liberale, egli ha lasciato ben presto i liberali per aggregarsi al Polo della Nazione per confluire infine nei Responsabili come indipendente liberale.

Il fenomeno di questi passaggi è quantomeno strano se si pensa che il bipolarismo avrebbe dovuto delineare due chiari schieramenti di maggioranza e di opposizione. Inoltre, come si ricorderà, si erano levate voci di condanna contro coloro che “tradivano” il proprio elettorato, come fatto per la prima volta da Bossi nel 1994, quando ha attuato il primo “ribaltone” della storia della cosiddetta seconda Repubblica, e come fatto da ultimo da Fini. La maggioranza di governo aveva sempre stigmatizzato queste migrazioni ma adesso sembra proprio che a questo via vai il governo debba la propria salvezza. Alla fine, allora, l’articolo 68 della Costituzione, che lascia liberi i deputati da qualsiasi vincolo di mandato, fa comodo a molti, anche a coloro che lo criticavano, considerandolo in contrasto con la logica del maggioritario.

La seconda considerazione va fatta proprio con riferimento al Pd. Lo scatto veltroniano del Lingotto aveva fatto intravvedere una strada nuova: la vocazione maggioritaria e aggregante, che però nacque con un peccato di origine ossia l’eccezione Di Pietro e la trattativa con i Radicali. Il Pd voleva andare da solo ma alla fine non è andato da solo. Questo ha imbrigliato il partito dentro la logica di Di Pietro e di Travaglio. Per evitare una crescita dell’Italia dei Valori ai danni del proprio elettorato il Partito democratico non ha sviluppato una proposta politica ma si è accodato all’antiberlusconismo. Non è stato più in grado di dire cose nuove, come sta tentando ora di fare il sindaco di Firenze Renzi. Hanno potuto perciò riemergere le logiche degli apparati del vecchio Pds, da cui Veltroni era riuscito in parte ad affrancarsi con l’dea di correre da solo superando l’Ulivo di Prodi e con l’invenzione delle primarie. Che però hanno dimostrato una divaricazione tra gruppi dirigenti e base come si è visto a Napoli e a Milano, e come si potrebbe vedere a Torino se Fassino, candidato della Segreteria, non dovesse farcela.

Il Pd sembra essere diventato il partito della diaspora, però, nel suo complesso, lo stesso Parlamento ha talora le caratteristiche di un porto di mare.