L'ultima della scienza climatica: il colonialismo ha scaldato il pianeta
Ascolta la versione audio dell'articolo
Il global warming di origine antropica viene attribuito ai paesi industrializzati. Ma nel passato anche agli imperi coloniali europei, che hanno esportato nuove tecniche agricole. Lo dicono studi preparatori della Cop28.
Il global warming di origine antropica è una congettura, sostengono migliaia di scienziati in tutto il mondo. L’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico istituito dall’Onu nel 1988, invece continua a sostenere che esistono prove “inequivocabili” del fatto che è l’attività umana a far aumentare la temperatura del pianeta. Ma non tutta l’attività umana. Il fenomeno è iniziato, sostiene l’organismo Onu, quando la civiltà occidentale ha adottato e diffuso un modo di produzione e uno stile di vita che richiedono l’emissione di eccessive quantità di gas inquinanti, oltre che un insostenibile consumo di risorse e di energia.
Calcoli sorprendentemente precisi, se si pensa alla quantità di dati e alla complessità delle operazioni necessari per realizzarli, indicano quali sono i maggiori produttori di CO2: i paesi industrializzati, ovviamente, con in cima alla classifica, nel 2021, la Cina, seguita da Stati Uniti, Unione Europea, India, Russia e Giappone mentre al fondo si trovano i paesi in via di sviluppo, ultimi quelli africani che, salvo la Libia e il Sudafrica, registrano valori molto bassi, in gran parte inferiori all’1%. La Cina è il paese che nel 2021 ha prodotto più CO2, 33%, da sola ha superato la somma delle quattro economie che la seguono. L’Unione Europea, ad esempio, è stata responsabile dell’7,3% delle emissioni globali.
Se però si considera la produzione di gas inquinanti in una prospettiva storica i valori cambiano. Secondo ricerche che erano state condotte in preparazione della Cop 27, dal 1850 a oggi l’umanità avrebbe emesso 2.558 miliardi di tonnellate di CO2 che avrebbero causato un aumento della temperatura di 1,15° rispetto all’epoca preindustriale. I maggiori responsabili del totale delle emissioni, secondo i ricercatori, sono stati gli Stati Uniti (20%) seguiti da Cina, Russia, Brasile e Indonesia mentre molto minori sono state le emissioni dei paesi europei: le più consistenti, quelle della Germania, 4%, e del Regno Unito, 3%.
Ma una nuova ricerca, appena pubblicata, ha portato a rivedere dati e percentuali. Si intitola Revealed: How colonial rule radically shifts historical responsibility for climate change ed è stata pubblicata su CarbonBrief il 26 novembre, alla vigilia della Cop 28, la conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre. Gli autori, basandosi sull’analisi dei dati fatta da Verner Viisainen, hanno corretto le ricerche precedenti che, secondo loro, avevano commesso il grave errore di non considerare, nel calcolo delle emissioni di ogni paese, la quantità di CO2 che le potenze coloniali europee hanno prodotto nei territori da loro colonizzati. In altre parole, le emissioni dei paesi colonizzati – quasi tutta l’Africa, l’India, lo Sri Lanka (da colonia, Ceylon), l’Australia, le Indie occidentali francesi e tanti altri – sono state addebitate ai loro abitanti ingiustamente. Nel periodo in cui sono stati colonie la loro produzione di CO2 è aumentata, in molti casi in maniera esponenziale, a causa dei cambiamenti introdotti dai colonizzatori – attività industriali, minerarie, agricole, creazione di infrastrutture e servizi, diffusione e sviluppo dei centri urbani, maggiori risorse e quindi più consumi, viaggi… – e quindi è alle madre patria che va addebitata.
Molti di questi paesi – spiegano i ricercatori – adesso registrano emissioni relativamente basse e in calo. Ma il loro contributo al global warming va stimato tenendo conto della quantità di CO2 che hanno prodotto a partire dal 1850 sia in patria che nei territori conquistati. Il Regno Unito risultava aver rilasciato circa 76,4 miliardi di tonnellate di CO2, dal 1850 a oggi, ma, aggiungendo le emissioni nelle sue colonie, il totale sale a 130,2 miliardi tonnellate, con un aumento del 70%, il che lo colloca quarto per percentuale di CO2 prodotta. La percentuale di emissioni dal 1850 cresce per la Francia del 51%, per l’Olanda del 181%, per il Portogallo del 234%, per il Belgio del 33%, per la Spagna del 12%. Parallelamente diminuiscono le emissioni percentuali dei paesi colonizzati e di quelli, come il Giappone e soprattutto la Cina, la cui produzione di CO2 è stata quasi interamente interna.
Il dato su cui insistono molti dei commenti alla ricerca è che le emissioni dei territori sotto il dominio coloniale del Regno Unito e degli Stati europei, fanno aumentare del 28% il contributo totale dell’Europa alla produzione di gas inquinanti e la quota sul totale mondiale di emissioni del 4%, portandolo dal 14,7 al 18,7%.
Proprio mentre si verifica il moltiplicarsi delle denunce contro l’Europa, delle richieste di ammissione pubblica e formale di colpa e di risarcimenti per i danni causati in Africa dalla tratta transatlantica degli schiavi e dalla colonizzazione, denunce e richieste che vengono recepite senza replicare, almeno elencando quanto di positivo l’Europa tuttavia ha portato nel continente e il ruolo decisivo che ha avuto nel mettere fine alla tratta transatlantica e anche a quella arabo-islamica, l’aggravarsi delle responsabilità europee nel determinare il global warming, che la nuova ricerca vuole dimostrare, non farà che rendere più difficili i rapporti tra i paesi europei e quelli africani.
I ricercatori dicono di aver calcolato e di essere in grado di dire persino quanta CO2 ogni singolo cittadino europeo ha prodotto finora, alla luce dei nuovi dati che includono le emissioni nelle colonie, in che misura quindi è da ritenersi responsabile del cambiamento climatico che si presume antropico e dei fenomeni atmosferici avversi che si afferma ne siano la conseguenza, patiti, si dice, in misura enormemente maggiore proprio da chi meno ne ha colpa, gli africani.
Il “fardello dell’uomo bianco” diventa ogni giorno più pesante.