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PRESSIONI SULL'ONU

Giornata dell’aborto, lo vogliono le lobby miliardarie

Una coalizione mondiale abortista ha inviato una lettera al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon per chiedere l’istituzione di una “Giornata internazionale dell’aborto sicuro” da celebrare ogni 28 settembre. Così, dopo la legalizzazione, ora vogliono la celebrazione mondiale di un assassinio di massa. 

Esteri 07_09_2016
Manifestazione pro aborto

Come può una pratica che comporta l’eliminazione di almeno una vita umana e seri rischi per un’altra (fisici e psichici) essere definita “sicura” e promossa fino al punto di poter diventare motivo di celebrazione nell’ambito di una giornata internazionale? Eppure potrebbe succedere e, se così fosse, sarebbe l’ennesimo passo in avanti di quella ideologia che san Giovanni Paolo II chiamava «cultura della morte».

Nei giorni scorsi, infatti, una coalizione di 430 tra individui e organizzazioni abortiste e femministe (comprese le immancabili Planned Parenthood e Naral, per le quali l’aborto e il controllo delle nascite sono un business miliardario) ha inviato una lettera al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e ai direttori di alcune specifiche agenzie delle Nazioni Unite (Un Women, Unicef, Unfpa, Unesco, Undp, Unaids e Oms) per chiedere l’istituzione di una “Giornata internazionale dell’aborto sicuro” da celebrare ogni 28 settembre. Beffardamente, il mese della canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, che proprio al Palazzo di Vetro nel 1985 aveva esortato i leader di tutto il mondo a «impedire che vengano uccisi i bambini non ancora nati».

Nella lettera, la coalizione pro-aborto scrive di aver scelto il 28 settembre perché nel 1990 «il movimento per la salute delle donne l’ha dichiarato giornata internazionale di azione per la decriminalizzazione dell’aborto, e da allora si festeggia annualmente». Ancora più interessante un passaggio successivo del testo, dove i firmatari cercano di convincere i rappresentanti dell’Onu a istituire ufficialmente la giornata internazionale, con l’argomentazione implicita secondo cui la società civile sarebbe pronta a celebrare l’aborto sicuro, perché preparata da anni e anni di campagne culturali, mediatiche e sociali. 

Nella lettera si legge, infatti, che finora «le attività per il 28 settembre hanno incluso report, articoli, interviste alla radio e in televisione, video, marce, manifestazioni, incontri pubblici, teatri di piazza, flashmob, sondaggi, mostre d’arte, rassegne cinematografiche e serate musicali», oltre a una tweetathon (una maratona di tweet per promuovere una determinata causa) che «nel 2015 ha raggiunto quasi mezzo milione di persone». E ancora: «L’estensione e l’impatto di queste attività è cresciuta notevolmente sia a livello nazionale che internazionale». In sostanza, dopo aver legalizzato l’aborto in pressoché tutto l’Occidente, la lobby abortista punta a continuare l’opera non solo facendo pressione nei più vari modi sui Paesi dove è ancora vietato, ma addirittura alzando la posta fino a chiedere una sua celebrazione mondiale. 

La strategia è chiara: quel che prima era riconosciuto come un male senza eccezioni, gradualmente è stato tollerato, poi permesso entro certi paletti e, adesso, si cerca di riconoscerlo come un bene (e se ciò avverrà cadranno a poco a poco tutti i paletti residui, dall’intervallo di tempo entro cui abortire all’obiezione di coscienza), completando il rovesciamento morale. Un esempio perfetto del funzionamento della cosiddetta “finestra di Overton”, una tecnica di persuasione delle masse basata su sei stadi e attraverso la quale, come spiegò un anno fa il cardinale Angelo Bagnasco nel suo discorso davanti al Consiglio permanente dei vescovi italiani, «si riesce a far accettare l’introduzione e la successiva legalizzazione di qualsiasi idea o fatto sociale, fosse anche la pratica che, al momento, l’opinione pubblica ritiene maggiormente inaccettabile. Uno di questi passaggi è quello che potremmo chiamare la “cultura degli eufemismi”: consiste nel chiamare le cose peggiori con nomi meno brutali e respingenti per la sensibilità generale».

Esempi di eufemismi? Ieri, per legalizzare l’uccisione di bambini nel grembo materno, si parlava di «libertà di scelta della donna». Oggi, ottenuta la legalizzazione negli Stati più ricchi, si parla appunto di «aborto sicuro» per rendere sempre più accettabile il concetto e vincere le ultime resistenze. I firmatari affermano che «l’aborto è una delle procedure mediche più sicure» e, dopo aver snocciolato una serie di dati sul numero di donne morte durante o in conseguenza di un aborto (il che contraddice l’asserita sicurezza della pratica, senza dimenticare che è noto il collegamento tra l’aborto procurato e - per evidenziarne solo alcuni - i maggiori rischi di cancro al seno, infertilità, aborti spontanei e nascite premature in caso di successive gravidanze), fanno leva sul solito argomento secondo cui per evitare queste morti sarebbe necessario legalizzare. 

Un argomento falso, come dimostrano i casi di Irlanda e Cile che hanno tra i più bassi tassi al mondo di mortalità materna, nonostante in quei Paesi l’aborto sia tuttora illegale (tranne nelle situazioni di grave pericolo per la vita della donna): ciò a conferma di come le morti non dipendano dalla legalità o meno della pratica, bensì principalmente dal livello dei servizi di cura per la maternità. Inoltre, è un argomento che sposta sempre l’attenzione dal cuore del problema e cioè che l’aborto - legale o non legale - implica in ogni caso la soppressione di una vita.

Come ha spiegato in un’intervista a Life News la ricercatrice ed esperta di politiche Onu, Rebecca Oas, «ciò che serve alle donne è una migliore assistenza sanitaria per la maternità e ci sono Paesi in cui c’è questa assistenza accanto a forti protezioni legali per i nascituri». La Oas smonta anche il tentativo della lobby abortista di far passare l’aborto come un diritto garantito a livello internazionale, ricordando come esso non venga promosso da nessun documento condiviso delle Nazioni Unite, per cui l’eventuale istituzione di una giornata internazionale rappresenterebbe un abuso. «Se il segretario generale e i capi delle agenzie Onu dovessero assecondare questa richiesta, darebbero solo l’impressione di essere legati a un’agenda radicale e controversa piuttosto che ai governi che compongono le Nazioni Unite. Questo è un estremo tentativo di chiedere a una élite un’azione simbolica dopo aver costantemente fallito nel far valere la propria tesi nei negoziati che contano».